Era l’11 maggio 1976, ovvero poco meno di quarant’anni fa, quando con la Legge 360/76 il Parlamento “restituiva” ai ragazzi con disabilità visiva il diritto all’inclusione nella scuola di tutti, un diritto che era stato loro “scippato” da due Leggi: quella che nel 1952 aveva statizzato le scuole elementari per ciechi [Legge 1463/52, N.d.R.] e quella che nel 1962 aveva istituito la scuola media unica [Legge 1859/62, N.d.R.]. La prima aveva previsto infatti che i ciechi dovessero assolvere all’obbligo scolastico nelle apposite scuole speciali, impedendo – contrariamente a quanto previsto dalla Riforma Gentile – che essi potessero frequentare, a partire dalla quarta elementare, le scuole comuni. La seconda, invece, aveva esteso l’obbligo fino a 14 anni, costringendoli a frequentare anche le nuove scuole medie speciali, nate dalla trasformazione delle precedenti scuole speciali di avviamento professionale.
Questo rende evidente come la frequenza degli alunni con disabilità visiva nelle scuole speciali fino al termine dell’obbligo scolastico non sia stato il frutto di una riflessione tiflopedagogica, ma sia stata invece motivata dalla necessità di salvaguardare strutture e interessi diversi.
A questa situazione si ribellarono, a partire dai primi Anni Settanta, alcuni genitori spezzini, seguiti da altri (torinesi, bergamaschi, veneti e via via di altre Regioni), che, se pur non sempre appoggiati dalle locali sedi dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti), ottennero che i loro figli fossero accettati nelle scuole comuni per l’assolvimento dell’obbligo.
Nasceva così, all’interno dell’UICI stessa, quel movimento che avrebbe lottato per ottenere di nuovo il riconoscimento del diritto all’inclusione scolastica degli alunni con disabilità visiva, quel diritto che nel 1925 l’insegnante Augusto Romagnoli, fondatore della tiflologia, aveva voluto per loro a partire dalla quarta elementare e che Leggi motivate come detto più dalla salvaguardia delle Istituzioni che da ragioni pedagogiche, avevano loro sottratto.
La Legge 360 fu promossa da una Parlamentare bergamasca, che dopo aver potuto verificare l’efficacia dell’inclusione scolastica per i ragazzi con problemi di vista, come assessore all’Istruzione di quella Provincia, fece giustizia dello “scippo”, restituendo loro il diritto alla frequenza nella scuola di tutti e precedendo di un anno la Legge 517/77, che avrebbe sancito il diritto all’inclusione nella scuola dell’obbligo per tutti gli studenti con disabilità.
Purtroppo, il modo con cui, a partire da questo momento, verrà realizzato il modello di inclusione non terrà conto di uno dei due “pilastri” sui quali la Legge 517/77 fondava il processo di integrazione, ovvero lo sviluppo di un “contesto inclusivo”, ma si limiterà a fare affidamento unicamente sul docente di sostegno, ciò che favorirà il progressivo disimpegno degli insegnanti titolari e l’ampliarsi della “delega” del disabile al sostegno.
Inoltre, anche in considerazione della modesta percentuale di disabili visivi (meno del 2%) sul totale degli alunni con disabilità, il modello di inclusione e la formazione dei docenti – focalizzandosi per lo più sulla disabilità intellettiva – terranno sempre meno in conto le specificità della minorazione visiva.
Questi, dunque, i principali punti di debolezza di un modello di inclusione che, per quanto riguarda l’istruzione delle persone con disabilità visiva, ha sicuramente la necessità di essere rivisto.
Questo, tuttavia, non giustifica certo le “nostalgie” di chi evoca un ritorno alle scuole speciali: l’inclusione nella scuola di tutti delle persone con disabilità è infatti un principio della cui validità tutti sono convinti, tanto che, com’è ben noto, il nostro sistema inclusivo è all’attenzione delle agenzie formative di tutta Europa (e non solo), e sempre più nazioni stanno aprendo i loro sistemi scolastici all’inclusione delle persone con disabilità.
Per quanto poi riguarda i ciechi,come abbiamo visto, non si tratta che di tornare ai princìpi del fondatore della tiflologia il quale sostenne – sin dall’inizio e nonostante si fosse in un contesto socioculturale in cui l’analfabetismo era ancora molto diffuso – che i nostri ragazzi potevano frequentare le normali scuole sin dalla quarta elementare (ovviamente senza docente di sostegno).
Quarant’anni di integrazione scolastica ci hanno insegnato che per una reale inclusione questo modello che è passato a fornire agli alunni con disabilità visiva da meno di 13 ore medie settimanali dei primi Anni Novanta, alle attuali 25 ore medie settimanali di sostegno (tra scuola e a casa), non è servito a migliorarne il processo di inclusione, né serve pretendere per loro il rapporto di uno a uno tra alunno e insegnante di sostegno: è dimostrato, infatti, che non è l’aumento delle ore di sostegno ad elevare il livello qualitativo dell’inclusione. Ciò che serve, invece, è il “contesto inclusivo” di cui si diceva prima, in grado di mettere i ragazzi nelle condizioni di seguire autonomamente le lezioni, un contesto capace di offrire, attraverso una “rete organizzata” tra territorio e scuola, servizi di formazione e sostegno specializzati e di qualità, che rendano i docenti titolari “capaci” di insegnamento ai ragazzi con disabilità, fornendo loro gli strumenti per far sì che essi riescano ad interagire positivamente con lui.
In altre parole, un contesto in cui vi sia chi sappia: comprendere gli aspetti critici dello sviluppo psicomotorio in assenza della vista e suggerire come si faccia a superarli con successo; chiarire gli aspetti specifici della percezione della realtà in mancanza della vista; valutare la funzionalità del residuo visivo in relazione al lavoro didattico e/o professionale; insegnare come si educa un minorato della vista alla “lettura” delle rappresentazioni grafiche bidimensionali (grafici, piantine toponomastiche e cartine, disegni in rilievo ecc,); indicare quando è indispensabile l’insegnamento del metodo Braille, piuttosto che quali siano i sussidi per gli ipovedenti per rendere autonomo il bambino con disabilità visiva nella letto-scrittura; illustrare quali siano gli accorgimenti e i sussidi per rendere efficace la didattica in presenza di un cieco assoluto e/o di un ipovedente grave; insegnare l’uso del computer con le periferiche assistive (screen reader, display Braille, sofware ingrandenti ecc.); individuare i giochi idonei al bambino con gravi problemi di vista; indicare quali siano le opportunità di accesso all’informazione (quotidiani e riviste online accessibili, biblioteche digitali, audiolibri ecc.); suggerire come si “adatta” un testo di scuola primaria o un testo letterario o scientifico, affinché il privo della vista o l’ipovedente lo possano utilizzare appieno; far capire come insegnare la musica a chi non riesce a leggere lo spartito; spiegare quali siano le possibilità di orientamento, mobilità e autonomia personale raggiungibili alle diverse età e nelle diverse situazioni, da parte di chi ha problemi di vista; valutare l’idoneità di una situazione di lavoro e la sua adattabilità al cieco o all’ipovedente.
Tutto questo può sembrare un’utopia, ma può diventare realtà se si riesce a mettere “in rete” tutte le capacità e le risorse oggi presenti, scoordinate però tra loro. È questa la nuova sfida che l’UICI e gli Enti ad essa collegati (Federazione delle Istituzioni Prociechi; Biblioteca Nazionale per Ciechi; IRIFOR-Istituto Nazionale di Ricerca, Formazione e Riabilitazione; IAPB-Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità) vogliono affrontare, con la creazione di un network per gli studi tiflodidattici e tiflopedagogici.
Occorre invece fuggire da coloro che, viceversa, vorrebbero nuove scuole speciali per ciechi, e che – sfruttando il malcontento di genitori lasciati soli di fronte a docenti di sostegno impreparati, che temono per il futuro dei propri figli – offrono loro questa “soluzione”, illudendoli che in tal modo i loro problemi saranno risolti.
Certe nostalgie non hanno senso nel momento in cui la pedagogia internazionale riconosce che l’inclusione scolastica è il modello educativo più valido e, a maggior ragione lo sarà per quelle persone con disabilità che da sempre, prima che altri interessi gliene scippassero il diritto, sono andati a scuola con i loro compagni vedenti.