Il 26 marzo scorso è improvvisamente scomparso Alain Goussot, docente di Pedagogia Speciale all’Università di Bologna, figura da tempo particolarmente impegnata sui temi della presenza a scuola di alunni con disabilità e provenienti da altri Paesi.
Così lo ha ricordato la Società Italiana di Pedagogia Speciale (SIPeS). «Alain Goussot è stato uno studioso impegnato e rigoroso, un ricercatore instancabile e integerrimo, capace di indagare i tempi più complessi con lucidità e grande onestà intellettuale. Il suo impegno, su tutti i fronti della Pedagogia Speciale, era intenso e appassionato. È sempre stato una presenza forte e significativa per la nostra Società; ha contribuito a far crescere la curiosità e la sensibilità attorno a questioni sociali complesse e spinose».
Da parte nostra, per ricordarlo, crediamo che il modo migliore sia riproporre ai Lettori (per gentile concessione) una lunga e illuminante intervista curata un paio di anni fa da Gloria Gagliardini, per il Gruppo Solidarietà e pubblicata nel n. 1/2014 di «Appunti», rivista dello stesso Gruppo Solidarietà, con il titolo Prospettive inclusive in educazione. Pur essendovi in essa anche temi “d’occasione”, legati cioè alla contingenza, ci sembra trattarsi di un contributo tuttora pienamente attuale e valido. (A.P.)
Nel suo libro Pedagogie dell’uguaglianza, e anche nel recente articolo Una scuola di progetti speciali con ragazzi speciali, per la rivista «Animazione Sociale», lei riprende le esperienze di alcuni grandi educatori: Freinet, Vygostskij, Milani, Freire… Perché questo continuo richiamo? Cosa, secondo lei, dobbiamo davvero oggi tenere in mente di quelle esperienze educative?
«I riferimenti alle fonti della storia dell’educazione e delle pedagogie attive sono importanti per far capire quali sono i fondamenti epistemologici e anche teorici sui quali si fondano le pratiche educative di ieri e di oggi. Negli anni si sono perse le tracce e la memoria viva di quelle esperienze, che sono anche alla base dell’identità professionale degli operatori dell’educazione in generale (pedagogisti, insegnanti ed educatori).
Rileggendo il pensiero pedagogico di Pestalozzi, Montessori, Decroly, Freinet, don Milani, Freire e altri, ci rendiamo conto che molte risposte si trovano nelle loro esperienze e possono aiutarci a ridare senso attualmente al lavoro educativo, ma anche dignità. Era Vygotskij che affermava che il linguaggio, come agente mediatore e organizzatore dell’universo mentale, struttura il pensiero: questo è vero per il pensiero pedagogico. Si tratta anche, dal mio punto di vista, di riattivare delle linee di resistenza alla colonizzazione del mondo della scuola e dell’educazione da parte del paradigma medico e clinico-terapeutico. Sempre di più, infatti, si assiste a una marginalizzazione della pedagogia che significa azione e pensiero insieme, rispetto alla clinica e alla tecnica didattica. La didattica viva, intesa come processo vivo e complesso (quello che Jean Houssaye chiama il “triangolo pedagogico”: docente-oggetto del sapere disciplinare-alunno), viene sostituita dal didatticismo (distinzione usata nei primi del Novecento dal pedagogo Giuseppe Lombardo Radice), cioè da procedure che diventano finalità in sé e per sé.
Sapere che alla base di ogni azione educativa e di ogni processo di insegnamento/apprendimento vi sono teorie e visioni dei rapporti umani e quindi della società mi sembra fondamentale e anche un antidoto potente per la presa di coscienza permanente dell’educatore che agisce come un tecnico di un sapere pratico che è in grado di pensare. Imparare ad imparare, imparare a pensare la propria praxis educativa è la parte più viva ed attuale di queste esperienze che mettono al centro la relazione e la persona. La concezione del gruppo classe come laboratorio e non uditorio, lo spazio classe come spazio comunicativo dove si collabora e si coopera nella costruzione dei saperi e l’acquisizione delle conoscenze, l’autonomia come base della libertà che sa che v’è anche la libertà dell’altro, quindi l’apprendimento reciproco del senso di responsabilità. La scuola come comunità che educa alla democrazia, al pluralismo, alla convivialità e al dialogo costante. L’idea che tutti apprendono in quello spazio e che ognuno porta il proprio contributo (ognuno a seconda delle proprie capacità, dei propri bisogni e delle proprie caratteristiche), l’apprendimento del sentimento di eguaglianza che vuol dire riconoscere – come diceva Jean-Jacques Rousseau, che può essere considerato come il padre fondatore di questo movimento pedagogico – che l’altro è “un altro Io diverso da me”. Sente come me le medesime emozioni, ma lo fa a modo suo, e in quanto tale è diverso da me. Insomma imparare che siamo insieme simili e diversi, far si che ognuno possa esprimere tutto il proprio potenziale intellettivo, affettivo-relazionale e neuromotorio, dimensioni correlate e integrate tra di loro nello sviluppo integrale della persona umana.
Ecco, rifornirsi alle fonti chiare dei fondamenti delle pedagogie attive vuol dire recuperare il senso e il significato profondamente umano del proprio lavoro di operatore dell’educazione. Vuol dire anche, come affermava John Dewey in Democrazia ed educazione, assumersi le proprie responsabilità educative come adulti nei confronti dei giovani e delle future generazioni.
Come dice il pedagogista francese Philippe Meirieu in Pedagogia: il dovere di resistere, occorre riappropriarsi della propria dignità pedagogica, per combattere i “nuovi poteri ascendenti” (media, medicalizzazione, scientismo, pragmatismo utilitaristico e tecnicistico, iperspecializzazione) e non avere paura della propria libertà nel pensare la propria pratica e nell’inventare ogni giorno con i ragazzi. La memoria storica viva e dinamica ci stimola e ci spinge continuamente a pensare oggi il concreto per superarlo in una tensione che fa di noi non solo gli attori del processo educativo, ma anche gli autori assieme agli alunni, e in particolare a quelli che sembrano resistere ad ogni approccio e vengono definiti come alunni con “comportamenti problema”».
Secondo lei, come possono i nostri servizi, la scuola, le altre agenzie educative tendere a una pedagogia sociale ancora prima di quella “speciale”? Cioè, come possiamo recuperare una cultura pedagogica ecologica, delle mediazioni, delle relazioni e non dei separatismi, dei tecnicismi?
«Intanto reimparando ad essere cittadini attivi e critici nella nostra esperienza professionale; avere coscienza che la questione degli specialismi e dei metodi in educazione è una questione altamente etica e politica. Quello che succede dentro e intorno la scuola riguarda tutta la società, riguarda il modello di società che abbiamo in testa.
La domanda è: oggi gli operatori dell’educazione (dentro e fuori dalla scuola) sono degli autori, dei soggetti pensanti, autonomi in grado di esprimere un punto di vista rispetto alle tendenze sociali, culturali e politico-istituzionali che investono la scuola e il sistema dei servizi socio-educativi oppure sono degli esecutori, dei bravi contabili dell’applicazione di tecniche iperspecializzate e standardizzate? Gli operatori dell’educazione si sentono responsabili del futuro delle giovani generazioni, degli alunni considerati come problematici e in difficoltà, oppure agiscono come bravi “esperti” di un sistema che vuole adattare o curare, perché questo serve al controllo sociale in una fase di smantellamento dei diritti universali dell’uomo, fra cui il diritto all’istruzione, alla cura, all’alloggio oppure al lavoro e alla protezione sociale?
Penso che bisogna avere il coraggio di ricreare nell’esperienza quotidiana delle zone di “utopia concreta” (per usare un’espressione di Ernst Bloch), dove la ricostruzione dei legami sociali, la solidarietà effettiva basata sull’aiuto reciproco autentico, la cooperazione, il riconoscimento delle differenze (e non l’ideologia della diversità che separa in nome di una concezione rigida e chiusa dell’identità, che porta al differenzialismo che produce solo diseguaglianze), il vivere nell’esperienza di relazione l’apprendimento del sentimento di eguaglianza (dall’esperienza in classe a scuola, all’associazione sportiva o al circolo di quartiere, dal mettere in comune delle risorse piccole nei condomini ecc…), l’aprire degli spazi di vita quotidiana in cui pluralismo e “meticciamento” sono delle forze vive per guardare il futuro e cambiare nella vita di ogni giorno le strutture d’ingiustizia che hanno ormai lacerato il tessuto sociale.
Vi sono già delle esperienze simili di co-educazione in diversi Paesi dell’America Latina (zona in cui succedono cose interessanti), in Paesi europei come la Grecia, ma anche il Belgio (basta pensare all’esperienza delle città dell’educazione che si basa sul principio pedagogico, pedagogia di comunità, della co-educazione promossa dall’équipe del pedagogista belga Jean-Pierre Pourtois dell’Università di Mons). In una società multietnica e pluriculturale, ma anche “meticcia”, come la nostra, l’attivazione di processi co-educativi (partendo per esempio dalle reti sociali connesse alle scuole pubbliche in cui passano tutti gli alunni) permette lo sviluppo dell’ecosistema sociale nel senso di più giustizia e dell’emancipazione, mettendo al centro la qualità di vita delle persone, la loro dignità e i loro diritti di cittadinanza.
Faccio un riferimento anche alla storia della pedagogia italiana: già un pedagogista come Raffaele Laporta ne parlava nel suo testo L’autoeducazione delle comunità, testo in cui si soffermava aulla mediazione pedagogica intesa come mediazione socio-culturale, ridando potere vero agli attori sociali e ai soggetti culturali della comunità intesa come spazio educante e inclusivo. Attualmente il filosofo francese Bernard Stiegler, autore di, Prendre soin (“Prendersi cura”), insiste sull’importanza del saper prendersi cura delle future generazioni, dell’ecosistema sociale, dell’ambiente e delle relazioni umane, per costruire una società umanamente sostenibile e in grado di rispondere ai bisogni di tutti. La prospettiva è anche quella della transculturalità, cioè dello sviluppo di una costruzione “meticcia” della convivialità e anche dei saperi sul piano educativo e sociale. Aprire degli spazi di mediazione e comunicazione costruttiva tra scuola, famiglie, operatori dei servizi, attori sociali, culturali ed economici. Per esempio, in una città come Charleroi, in Belgio, il progetto di co-educazione ha prodotto dei momenti d’incontro nelle fabbriche della zona, tramite i sindacati e i responsabili aziendali, con i lavoratori genitori dei bambini che frequentano le scuole del territorio. Incontri in cui si parla, in azienda, dell’importanza dei progetti educativi, di formazione, di orientamento professionale.
Sono tutti processi di cittadinanza attiva che aprono dei percorsi di solidarietà e di emancipazione, nonché uno sviluppo umano rispettoso dei diritti e della dignità delle persone partendo dalle relazioni».
La questione dell’inclusione per molte persone con disabilità complessa è evidentemente il punto che mette in crisi oggi lo stato dell’inclusione scolastica e sociale. Se nella scuola dell’infanzia fino alla primaria sembra cosa quasi consolidata, poi nell’età dell’adolescenza e nell’età adulta, le possibilità di vita sociale diminuiscono nettamente e, spesso, le risposte in termini di servizi educativi e sociali sono ridotte. Quali riflessioni e quali prassi sono ancora da attuare in questo senso?
«Intanto proviamo a ragionare su due concetti: quello di inclusione e quello di disabilità complesse. Una volta si parlava soprattutto di integrazione, il passaggio alla parola inclusione potrebbe apparire come un “gioco linguistico” sofisticato (per riprendere l’espressione di Wittgenstein). In realtà è qualcosa di più: la parola integrazione potrebbe infatti veicolare un’ambiguità di fondo; integrare vuol dire adattare? Ma adattare rispetto a cosa? A una norma?
Nell’àmbito delle questioni legate all’immigrazione, la parola integrazione in alcuni Paesi, come la Francia, ha avuto un sapore vicino a quello di assimilazione. È vero che in Italia la parola integrazione era molto legata all’esperienza delle persone con deficit e degli alunni con disabilità, che aveva anche un significato più rispettoso delle differenze perché legato al concetto di eguaglianza.
Possiamo partire dalla riflessione di Jurgen Habermas che nella sua teoria dell’agire comunicativo e nell’inclusione dell’Altro opera una distinzione tra un agire strumentale e un agire comunicativo a livello sociale: nell’agire strumentale, l’Altro (nel nostro caso le persone con disabilità, ma si può fare il medesimo ragionamento per tutte le minoranze) è ridotto a strumento od oggetto, viene agito dagli altri e non è mai autonomo e soggetto del proprio percorso. In questa prospettiva, l’integrazione diventa adattamento normativo, il disabile è oggetto di cura e assistenza e non soggetto di bisogni, di diritti e di vita. Nella prospettiva, invece, dell’agire comunicativo, l’Altro come tale è un valore, una finalità (questa in un’accettazione di tipo kantiano sul piano filosofico), un soggetto con le sue particolarità e che va rispettato con le sue differenze.
Qui si parla di inclusione, cioè di un adattamento reciproco ambiente-soggetto disabile, di un processo di autonomia emancipatrice dove l’ambiente cambia per accogliere e rispettare effettivamente le differenze e garantire loro l’eguaglianza delle opportunità.
Recentemente il pensatore francese Charles Gardou, nel suo libro, La società inclusiva, afferma che l’inclusione significa alcune cose precise: equità, funzionamento delle capacità (capabilities, nel senso di Amartya Sen e Martha Nussbaum), autonomia e soggettività, accessibilità (modificazione dell’ambiente che deve essere in tutte le sue dimensioni accessibili per tutti), diritti di cittadinanza (diritto non solo all’istruzione, la cura, l’assistenza ma anche all’affettività), giustizia (il rispetto della dignità di ogni persona e il riconoscimento delle differenze).
L’altro concetto è quello di disabilità complesse (soggetti con diversi deficit di tipo sensoriale, motorio e mentale). Meglio usare anche il termine “disabilità complesse” che sostituisce la parola “grave”, con il sottinteso in questo ultimo caso che si può fare poco. Invece c’è sempre qualcosa da fare in termini di qualità della vita, nonostante la presenza di più deficit (motorio, intellettivo e sensoriale), di dignità e di umanizzazione dell’accompagnamento, quindi dal punto di vista dei diritti di cittadinanza.
Spesso queste persone mettono in difficoltà o fanno saltare il sistema di accoglienza a scuola o altrove, la complessità del loro essere come soggetti viene spesso vissuta come un ostacolo e un problema. Nessuno sottovaluta le difficoltà, ma crediamo che proprio i soggetti con disabilità complesse sfidino l’ambiente al cambiamento e lo sfidino sul piano della realizzazione dei diritti e della giustizia che riguarda tutta la società. Questo è ancora più evidente nell’età adulta; gran parte della letteratura scientifica o delle linee d’intervento, infatti, si concentrano sull’età evolutiva, dimenticando che le persone con disabilità, dopo i 18 anni, hanno un lungo cammino davanti a loro, che diventano adulte e invecchiano come tutti. Sono anche convinto che – per misurare per davvero il livello d’inclusione delle persone con disabilità – si debba andare a vedere cosa sono diventate e cosa fanno in età adulta. La mia esperienza personale mi dice che il quadro è piuttosto critico e talvolta anche desolante. Ma i disabili adulti e che invecchiano sono visti soltanto come dei “numeri dell’economia sanitaria”, degli invalidi, e c’è ben poca riflessione e progettualità in riferimento alla qualità di vita di queste persone. Anche qui si può affermare che si tratta di un indice preoccupante dello stato d’inciviltà e disumanità verso il quale sta scivolando la nostra società».
La Direttiva di fine 2012 del Ministero sui Bisogni Educativi Speciali (BES) [si vedano a tal proposito la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 e la Circolare Ministeriale 8/13, N.d.R.] pone molte domande: si è creata una divergenza di vedute sul piano pedagogico tra chi sostiene che essa aiuti a una nuova lettura dei bisogni e delle strategie didattiche per quanti hanno difficoltà anche solo momentanee di apprendimento, di comportamento o di lingua per cultura diversa; e chi sostiene invece che si tratti di un altro irrigidimento strutturale alla scuola. Lei sembra orientato a riprendere una riflessione più ampia del mandato politico e sociale della scuola: quello di comunità educante in cui anche l’alunno sia soggetto di un percorso didattico e in cui l’insegnante non diventi un operatore di procedure. Con quella Direttiva quali sono i rischi che lei vede dal punto di vista pedagogico e politico per l’inclusione? E quali invece, se ci sono, i punti di forza?
«L’unico punto di forza, se possiamo dire, di quella direttiva sui Bisogni Educativi Speciali è che ha provocato una discussione nella comunità scientifica e nel mondo della scuola; ha finalmente riaperto una riflessione su cosa voglia dire pedagogia inclusiva, didattica viva, apprendimento.
La Direttiva, in parte corretta da una successiva Nota di chiarimento del Ministero [Nota Ministeriale n. 2563 del 22 novembre 2013, N.d.R.] (e questo la dice lunga sull’andamento e l’incertezza anche a livello ministeriale, direi anche la confusione), presenta alcuni aspetti problematici e inquietanti:
1) una nuova categorizzazione e una tendenza a volere catalogare la popolazione scolastica;
2) uno sguardo essenzialmente clinico-terapeutico (non solo sanitario) che fa del soggetto con “comportamenti problema” un soggetto che va etichettato, riparato, curato e adattato;
3) delle sottocategorie discutibili sul piano scientifico (come quella di disturbo del comportamento, di funzione intellettiva limite ecc.) e con dei rischi d’identificare le difficoltà di apprendimento, quelle linguistiche-culturali oppure il disagio sociale come un problema dal punto di vista dell’imparare;
4) il rischio di vedere gli insegnanti trasformarsi in operatori della diagnosi che vanno a caccia di sintomi;
5) il rischio di una dimissione di responsabilità pedagogica dell’insegnante di fronte a un alunno problematico;
6) la tendenza a riprodurre e accentuare la costituzione di classi-ghetto, dove si concentrano tutti i BES (con la ricostituzione di classi differenziali);
7) una gestione burocratica-tecnocratica e non democratica della progettazione e della programmazione pedagogica e didattica;
8) lo sviluppo e l’accentuata riproduzione delle diseguaglianze (una logica differenzialistica e non una logica di riconoscimento delle differenze basata sulla costruzione dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso ai saperi e le conoscenze).
Pure tra tanti problemi, limiti e contraddizioni, penso che in tante scuole molti insegnanti si sforzino di pratica una pedagogia e una didattica effettivamente inclusiva; bisognerebbe partire da queste esperienze, metterle in contatto tra di loro e costruire le condizioni di uno spazio di riflessione pedagogica collettiva sulle pratiche educative nelle classi e nelle scuole. Farlo in modo vivo, attraverso l’approccio della “ricerca azione” che parte dal basso e coinvolge gli insegnanti e gli alunni, nonché i genitori, come attori-autori della ricerca. Quindi non più quelle ricerche con questionari calati dall’alto, ma un processo vivo ed esperienziale nell’attività docente concreta e quotidiana.
Oggi si corre il rischio – nell’era dell’aziendalizzazione della scuola e della sua precarizzazione – di una formazione a due velocità: quella per chi ha una certa posizione socio-culturale e chi invece proviene dai quartieri “poveri” e poco scolarizzati, da quelle che papa Francesco chiama “le periferie della vita”. La Direttiva sui BES andava, in nome dell’inclusione, nel senso dell’accentuazione del carattere tecnocratico, clinico-terapeutico e differenzialistico del processo di scolarizzazione. Cioè nel senso di una scuola di classe sul piano sociale e su quello culturale».
Nella realtà di molte scuole, quelli che dovrebbero essere processi inclusivi per persone con disabilità trovano fatica ad attuarsi. Spesso, infatti, si assiste a modalità di lavoro in aule di sostegno senza il coinvolgimento col gruppo classe, lavori individuali (non individualizzati) in cui si fa sempre più fatica a elaborare metodi di lavoro cooperativo. Ci può dire come vede lo stato dell’integrazione scolastica su questo punto?
«È ormai da anni che va avanti la crisi del “sistema d’integrazione”: non basta una normativa (quella del 1977 e quelle successive) per costruire un’autentica cultura pedagogica dell’inclusione a scuola. Sappiamo come vengono assunti gli insegnanti specializzati di sostegno, conosciamo l’assenza in molti luoghi di vera collaborazione progettuale tra insegnante curriculare e insegnante di sostegno, conosciamo i difficili rapporti che esistono tra scuola e famiglia, scuola e servizi. Spesso le cosiddette “aule di sostegno” sono dei ghetti e delle classi differenziali, dove si concentrano alunni disabili con degli alunni con difficoltà di vario tipo.
Penso che vi sia un doppio problema: la cultura inclusiva ancora non abbastanza diffusa; la scarsa preparazione pedagogica degli insegnanti sia delle discipline che di sostegno. E dico preparazione pedagogica, non solo didattica: non basta infatti aver seguito un corso sulle “tecniche Feueurstein”, sulla gestione mentale degli apprendimenti ecc., per sapere gestire il contesto classe, quello spazio fondamentale dove avviene l’esperienza formativa di tutti gli alunni con o senza deficit, provenienti da tutti gli orizzonti culturali.
Lo spazio della classe dovrebbe essere gestito pedagogicamente come uno spazio interattivo, dove si coopera nel fare insieme, nel decidere insieme contenuti e modalità di apprendimento. Un insegnante che non sa essere un mediatore attivo e un consulente pedagogico del gruppo può anche tentare di eseguire le tecniche imparate in un corso di formazione sugli alunni con Bisogni Educativi Speciali o “comportamenti problema”, ma se non ha mai pensato al “come insegnare” e al “come gestisce il gruppo e le sue dinamiche”, il clima in classe riuscirà difficilmente a creare le condizioni per la partecipazione di tutti, di ognuno a seconda delle proprie capacità e modalità, al processo di costruzione dei saperi e di acquisizione delle conoscenze.
Il lavoro di gruppo, per gruppi liberi, tematici, di scopo, l’aiuto reciproco tra pari, le conferenze e le ricerche attive degli alunni, l’organizzazione democratica della classe, dove si discutono anche le questioni del suo funzionamento, della valutazione condivisa dei percorsi, sono tutte azioni pedagogiche che producono dei processi co-educativi. Pensare di ridurre la questione alla stesura e all’applicazione di un PDP [Piano Didattico Personalizzato, N.d.R.] lo ritengo sbagliato; è molto più interessante lavorare sulla relazione, il fare insieme e sul come articolare percorso individualizzato e attività di gruppo. Penso per esempio alla pedagogia del capolavoro di Célestin Freinet [“Il metodo naturale”, N.d.R.], che chiedeva agli alunni di presentare dei lavori ai loro compagni, ognuno sceglie quello che vuol fare, se lo vuol fare da solo o con gli altri, oppure la strutturazione di schede auto correttive, per monitorare in modo autonomo dal maestro il proprio percorso di studio e il livello di acquisizione di conoscenze. Oppure penso anche alle lezioni di vita che organizzava Ovide Decroly con i suoi alunni “irregolari” (disabili intellettivi e sordi); passeggiate nei campi e nei boschi, nelle botteghe artigiane con lo scopo di sviluppare le tre facoltà più importanti del processo di apprendimento: osservazione, associazione e espressione. Poi individualmente (piccole conferenze) o per gruppi, venivano presentati i lavori realizzati. Ognuno si sente valorizzato e complementare agli altri.
La mediazione del fare insieme, dell’autogestire insieme le proprie attività, di fare scelte autonome e di sentirsi responsabilizzato rappresenta un approccio formativo integrale per la personalità di ognuno e dove nessuno si sente escluso. Bisognerebbe formare gli insegnanti a riappropriarsi della pedagogia, a sapere osservare il potenziale di vita e di apprendimento degli alunni in classe, formarli ad essere dei facilitatori della comunicazione e della relazione, poiché la socialità è al centro del processo educativo. Su questo punto non c’è dubbio che anche l’Università italiana abbia delle responsabilità nella formazione del corpo docente».