In occasione della Festa della Mamma, celebrata lo scorso 8 maggio, Save the Children ha diffuso il Rapporto Mamme 2016, denominato Le equilibriste. Da scommessa a investimento: la sfida della maternità in Italia. Chi non avesse voglia di leggere la versione integrale, può scorrerne una sintesi pubblicata dall’Agenzia «Redattore Sociale».
Non è certo una novità constatare come le mamme italiane siano accomunate da una condizione di svantaggio sociale, professionale ed economico riconducibile alla disparità di genere, all’iniqua distribuzione del lavoro di cura familiare («le donne italiane over 15 dedicano al lavoro familiare non retribuito circa 5 ore e 9 minuti al giorno, contro le 2 ore e 22 minuti degli uomini»), ad un’organizzazione del lavoro retribuito che non tiene conto di queste esigenze (e tende a marginalizzare chi le deve svolgere), alla mancanza di servizi pubblici per l’infanzia.
Come sono buone le mamme, come sono belle, come sono brave, e quanto le amiamo, e quanto sono importanti, e quanto sono indispensabili… Se solo una piccola parte dei proclami d’amore che circolano, più o meno platealmente, nei giorni della Festa della Mamma fossero veri, non si capisce come mai lo svantaggio a cui la maternità le espone continui a caratterizzare la nostra società.
L’impressione è che quei proclami non siano del tutto sinceri, e che dalle mamme sia molto più comodo continuare a pretendere sacrifici, piuttosto che lavorare per creare un sistema in cui gli oneri siano equamente distribuiti tra Stato, società (mondo del lavoro) e famiglia e, all’interno della famiglia, tra i generi. Per cui, sì, cara mamma, ti voglio tanto bene, ma i “calzini” continui a lavarmeli te, anche se ho più di trent’anni e niente mi impedirebbe di farlo, a parte l’idea che sia lecito continuare a disporre di te anche per cose in cui potrei benissimo essere autosufficiente. Per cui sì, cara moglie, lavoriamo fuori casa tutt’e due, ma io le faccende non le so fare, e i ragazzi, per fare i compiti, preferiscono la mamma.
Molto più drammatica è spesso la situazione delle mamme di figli con disabilità, poiché in genere la disabilità comporta oneri di cura maggiori che per gli altri figli, e anche perché, nel caso di disabilità permanenti, tali oneri non sono circoscritti alla prima infanzia, ma si estendono a tutto l’arco della vita e, nel caso di disabilità ingravescenti, possono aumentare nel tempo.
Le mamme amano i propri figli e si sacrificano per loro, pensano i più. Che le mamme amino i propri figli è abbastanza vero, che la società e lo Stato facciano leva su quel sentimento per obbligarle ad assumersi anche gli oneri che spetterebbero all’una e all’altro ci dice invece che né l’una, né l’altro amano molto le mamme.
Sarebbe stato bello, in occasione della Festa della Mamma, iniziare ad usare le parole nel loro significato proprio. Ad esempio, avremmo potuto iniziare ad ammettere che quello che ci ostiniamo a chiamare “spirito di sacrificio” delle mamme, e delle donne, in realtà è solo una graziosa trovata per rendere pubblicamente accettabile, e perpetuabile, la violazione dei diritti umani cui la nostra società espone le donne nel momento in cui scelgono la maternità.
L’Associazione L’abilità di Milano ha celebrato la Festa della mamma raccontando su queste stesse pagine la complessa giornata di Francesca, madre di due ragazzi, Riccardo e Matteo, rispettivamente di 14 e 8 anni, interessati entrambi da un disturbo dello spettro autistico.
Quella proposta è una narrazione sobria, che mostra con onestà la dedizione di Francesca, la sua giornata impegnativa sotto il profilo del lavoro di cura, e le restrizioni alle quali anche famiglia è stata esposta («Per anni la sua famiglia non è andata in vacanza perché era troppo complesso. Perfino l’appuntamento per un taglio di capelli è difficile da gestire, come lo è prendersi del tempo per sé»).
Ma L’abilità ha fatto qualcosa di più importante che raccontare una storia, e celebrare una ricorrenza. Infatti, grazie al suo supporto, Francesca, che aveva dovuto smettere di lavorare perché la cura dei figli assorbiva completamente le sue energie, ha potuto riprendere il lavoro «perché ha capito che non poteva essere solo una mamma». La morale? Se la società facesse la sua parte, quelli che molti e molte considerano sacrifici “connaturati” alla maternità – come lasciare il lavoro retribuito per curarsi dei figli a tempo pieno -, diventerebbero percorsi opzionali, e non tappe obbligate.
Meno rassicurante, invece, è la storia di Bernadetta, mamma di una ragazza di 20 anni con sindrome di Down. «L’ospedale mi comunicò telefonicamente l’esisto dell’amniocentesi. Tutto qui: da allora in poi, nessuno mi disse cosa fare, né mi sostenne. Da 20 anni chiedo una legge che renda obbligatorio questo tipo di servizio», racconta dalle pagine di «Redattore Sociale».
I tratti dominati di questa narrazione sono il senso di abbandono dalle Istituzioni, la crisi di coppia, la solitudine. E proprio il termine “solitudine” è uno di quelli che ricorre con maggiore frequenza nelle esperienze di vita raccontate dai genitori di figli con disabilità.
Probabilmente dovremmo smettere di riempire le mamme di complimenti, ché se almeno fossero utili a condirci l’insalata, saprebbero cosa farne. Potremmo invece ascoltarle un po’ di più e lavorare per una società più equa. Il miglior antidoto alla solitudine delle mamme (anche di quelle con figli disabili) non sono i proclami d’affetto, né le lodi sperticate, ma una maggiore equità.
Posto questo, amiamole le nostre mamme, perché l’affetto, e non i suoi proclami, se lo meritano tutto.
Riflessione già apparsa nel sito di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), con il titolo “Le nostre mamme, amiamole davvero”. Viene qui ripresa, con minimi riadattamenti al diverso contesto, per gentile concessione.
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