Vi dice niente la parola recruiting? Si tratta del processo di selezione del personale che nell’era di internet è diventato e-recruiting, un collocamento attuato attraverso servizi online. Jobmetoo (tradotto “anch’io posso lavorare”) si inserisce in questo filone, trattandosi di un’agenzia per il lavoro che sfrutta le potenzialità della rete e in più ha la caratteristica di occuparsi unicamente delle persone con disabilità appartenenti alle cosiddette “categorie protette”.
Nata come un’ambiziosa sfida nel 2011, oggi la piattaforma viaggia a pieno regime e ha ottenuto l’autorizzazione dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Il team di Jobmetoo è formato da persone con disabilità e non, dimostrando così, al di là degli slogan, che l’integrazione in azienda non solo è possibile, ma è una risorsa. Per aderire bastano pochi click: ci si iscrive gratuitamente al portale, si compila il curriculum, si dà un’occhiata in bacheca per cercare le posizioni aperte e si invia la propria candidatura. L’86% delle selezioni di personale affidate all’agenzia vengono chiuse con successo; il sistema che funge da filo diretto tra chi cerca un lavoro e le imprese, quindi, funziona.
Ce ne parla con giustificato orgoglio il fondatore, Daniele Regolo, al quale l’idea è venuta dall’esperienza personale. Disabile uditivo, laureato in Scienze Politiche, Daniele aveva trovato un posto a tempo indeterminato come dipendente pubblico presso un’azienda sanitaria. Era l’addetto allo sportello ospedaliero, un impiego incompatibile con la sua disabilità, che gli consente di “sentire” le voci solo attraverso il labiale. Nel 2010, la scelta di mollare tutto e reinventarsi come imprenditore proprio nel campo delle “categorie protette”, per aiutare le persone con disabilità a trovare un’occupazione adeguata alle proprie capacità.
Sentiamo da lui come Jobmetoo è cresciuto, e concediamoci una “divagazione” in barca a vela, grande passione di Daniele, che descrive il mare come «una scuola di vita ineguagliabile».
Ciao Daniele, sono passati cinque anni dalla tua precedente intervista pubblicata in Superando. La tua startup Jobdisabili è diventata Jobmetoo, il primo portale web italiano che fa incontrare domanda e offerta lavorativa per le persone con disabilità. Come è cambiato in questo lasso di tempo il rapporto tra aziende e lavoratori disabili?
«Cinque anni sono stati molto veloci per Jobmetoo, ma non lo sono abbastanza per comprendere appieno gli effetti del progresso. Posso affermare però in certezza che, in tema di diversity – e quindi anche in tema di disabilità – le aziende stanno facendo notevoli passi in avanti. Personalmente, le aziende che ho incontrato hanno molto a cuore il tema disabilità, e ho dovuto rivedere alcuni falsi miti di cui ero stato imbottito quando ero io iscritto al collocamento mirato. Quello che manca, a mio avviso, va ricercato nello strumento di ricerca delle “categorie protette”, e non tanto nella presunta insensibilità del mondo del lavoro».
Quanti professionisti hanno finora trovato un’occupazione con Jobmetoo? E qual è il profilo più richiesto dalle imprese?
«Quando ci vengono affidate selezioni di personale, riusciamo a chiudere l’86% delle ricerche ricevute. Questo è un dato che ci inorgoglisce e che ci stimola a fare sempre meglio. Con un database che contiene oltre 70.000 candidati da tutta Italia e più di 350 aziende iscritte, per lo più di grandi dimensioni (quindi maggiormente vincolate all’obbligo), nel 2015 abbiamo pubblicato 2.500 offerte di lavoro in tutta Italia.
Le aziende cercano figure sempre più istruite e specializzate. I profili cercati su Jobmetoo coprono, come è giusto che sia, i principali settori e aree aziendali: laureati in materie economiche, ingegneria e informatica, profili in àmbito customer service [assistenza ai clienti, N.d.R.] e segretariato specializzato, help desk [informazioni e assistenza a utenti/clienti, N.d.R.], nonché addetti a back e front office. Sempre d’interesse sono i profili in àmbito amministrazione/contabilità, insieme agli addetti ai servizi generali. Operai specializzati e addetti vendita, infine, sono ugualmente ricercati».
Se dovessi “tirare le orecchie” alle persone con disabilità, quale difetto contesteresti loro per quanto riguarda il modo di approcciarsi al mondo del lavoro?
«Prima di “tirare le orecchie”, vorrei mettere in evidenza la mia ammirazione per le tante persone con disabilità che dimostrano una dote sempre più preziosa, la resilienza, ossia la capacità di gestire situazioni in un ambiente di stress. Di sicuro i disabili dovrebbero credere di più in se stessi, questo sento di affermarlo con sicurezza. E non è vero, invece, che cerchino solo il posto fisso. Noi abbiamo persone che hanno un lavoro a tempo indeterminato e vogliono dimettersi per cercare un ambiente lavorativo dove fare carriera: un segno bellissimo di maturità e consapevolezza».
Qual è, invece, il pregiudizio più duro da abbattere nelle aziende?
«Come dicevo prima, le aziende sono più sensibili di quanto non si creda. È indicativo (fonte Handylex.org) che il 10% degli avviamenti negli anni passati sia venuto da aziende senza obblighi di legge! Il problema più grave, a mio avviso, non sta nel momento dell’assunzione mancata, ma quando i disabili sono chiamati a fare carriera: le aziende non sanno ancora gestire completamente questa fase».
Il telelavoro è un mezzo inclusivo oppure può diventare un sistema per lasciare il dipendente con disabilità a casa e non rendere l’ambiente lavorativo accessibile?
«Bella domanda. Leggi a parte (per approfondimenti si può vedere qui), il telelavoro è già superato da una nuova modalità, lo smart working, ossia la nuova visione di un rapporto tra lavoro ed esigenze private. Detto questo, la mia opinione personale è che il lavoro in team sia così importante e unificante che lavorare a distanza resta l’eccezione, specie se parliamo di persone con disabilità».
La Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili): quali i limiti e quali i punti di forza?
«Da ex “figlio della Legge 68” per quindici anni, e oggi in una veste diversa, credo che la forza della legge coincida con i suoi limiti. Il fatto che sia una delle norme più garantiste, non solo in Italia ma anche in Europa, sembra averla relegata ad eterna incompiuta. Così come fu concepita, è un ottimo esempio di diritto sostanziale e non formale. Purtroppo, con un banale paragone calcistico, è come uno di quei numeri “10” del calcio che sembrano destinati a diventare dei campioni e che poi si perdono nelle serie minori!».
Il Jobs Act (Legge 183/14) come ha influenzato il collocamento degli appartenenti alle categorie protette?
«È presto per dirlo, quello che è certo è che impatta non poco sulla Legge 68: istituzione della Banca Nazionale del collocamento mirato, estensione della chiamata nominativa, benefìci subito erogabili e crescenti al crescere dell’invalidità, tanto per citare alcuni esempi, rappresentano una vera rivoluzione, tanto è vero che diverse Associazioni hanno espresso un punto di vista contrario. A mio avviso solo tra un paio d’anni se ne potranno capire appieno gli effetti».
Parliamo un po’ di te. Ami il mare e sei un esperto velista, una passione che ti ha preso per mano nella traversata dell’Atlantico. Cosa si prova tra cielo e oceano, in mezzo a tutto quel blu?
«Paradossalmente, si fanno molte riflessioni sulla vita… terrena! Il mare abbatte le barriere, costringe a vivere vicini e quindi a mediare le proprie esigenze, e la natura che ti circonda cambia notevolmente i significati che noi diamo al mondo. È una scuola di vita ineguagliabile».
Hai raccontato quest’esperienza straordinaria nel libro Il messaggio delle onde. Dalla sordità all’Oceano Atlantico (Cantagalli, 2001). Quale messaggio ti ha lasciato questa avventura?
«Ero partito perché avevo bisogno di ritrovarmi e di riconciliarmi con la mia sordità. Dire che l’obiettivo è stato raggiunto è dir poco. È stato un momento straordinario della mia vita, la cui eco tuttora permane, ad oltre dieci anni di distanza. La mia disabilità uditiva in mare non esisteva, proprio perché l’ambiente circostante (i miei compagni di traversata) sapeva come trattarla. È esattamente quanto riporta la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità».
Sei stato anche istruttore di vela nazionale. I tuoi allievi hanno avuto “pregiudizi” di fronte ad un insegnante non udente? E i tuoi colleghi istruttori?
«Mai, perché in quanto bambini o ragazzi non guardavano la mia disabilità, ma il mio ruolo. Mi hanno portato sempre molto rispetto e, per quanto essere istruttore di vela fosse uno dei miei tanti tentativi di capire quale fosse la mia strada lavorativa, ho vissuto anni molto formativi e conservo ricordi splendidi. Anche con i colleghi istruttori c’è sempre stata stima e simpatia: il mare abbatte molte barriere, come dicevo poco fa».
Tornando infine a Jobmetoo, la piattaforma online è anche un blog che parla di disabilità e sociale, e da poco si è aggiunto lo spazio People, che raccoglie testimonianze di persone e aziende che si sono incontrate grazie al portale. Altre novità in cantiere?
«Già queste sono novità che, per mantenerle vive assorbono completamente il nostro team. Ma anche questo è Jobmetoo, ossia portare cultura e, soprattutto, diffondere la nuova visione della disabilità, già conosciuta dal 2001 con i modelli ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] e consacrata dalla Convenzione ONU nel 2006: la disabilità non è la menomazione in sé, ma il risultato, sempre mutevole, del rapporto tra la persona disabile e l’ambiente che la circonda».