Su questo stesso giornale, di cui era direttore responsabile, Franco Bomprezzi aveva colto sin dalle prime battute del pontificato di Papa Francesco una particolare attenzione alla disabilità. Non ha fatto in tempo a gioirne. Oggi, se abitasse ancora su questa terra, sarebbe contento.
Per caso, domenica 12, finisco su Raiuno mentre da Piazza San Pietro va in onda la celebrazione della messa. Di solito cambio canale, per pudore. Questa volta non l’ho fatto per curiosità, perché mentre il sacerdote proclama il Vangelo dell’incontro di Gesù con la peccatrice che, in casa del fariseo Simone, gli lava i piedi con le sue lacrime e glieli asciuga con i suoi capelli, alcuni figuranti in costume stanno drammatizzando il brano liturgico. Strano: la proclamazione della Parola è un momento molto forte della liturgia, si sta in silenzio e in piedi.
Mi accorgo poi che quel Gesù è un po’ strano, ma anche familiare. La sua espressione distaccata, la conosco bene.
I commentatori chiariscono il mio dubbio, spiegando che si tratta di persone con disabilità intellettiva che hanno drammatizzato il Vangelo per chi ha la loro stessa disabilità, riprendendo l’antica funzione delle arti figurative che rappresentavano le scene sacre per chi non sapeva leggere. Una ragazza ha letto in braille la prima Lettura e contemporaneamente gli interpreti hanno tradotto tutto in lingua dei segni. I canti sono stati accompagnati dal coro dei bambini in guanti rossi. Anche l’Offertorio, uno dei momenti più toccanti, ha visto protagoniste persone con diverse disabilità, più o meno accompagnate.
Insomma, la messa è stata interamente servita da persone con disabilità. E tutta la celebrazione ha messo in rilievo le abilità.
Intanto la regia della RAI racconta per immagini cosa accade in Piazza San Pietro, rendendo ai telespettatori gesti e atteggiamenti di ordinaria tenerezza, quelli della cura di ogni giorno, trasferiti direttamente dalle case a quel luogo straordinario.
Fa sensazione il numero, la visione concreta di un intero popolo composto da persone con disabilità e accompagnatori. Le telecamere insistono sui particolari che “parlano”, soffermandosi sui testa a testa di madri e figli adulti, con gli sguardi rilassati. E mani intrecciate. Tante. E un papà elegante, in giacca e cravatta, seduto con grazia, che accavalla disinvoltamente una gamba per formare una culla per la figlioletta di cinque o sei anni, vestita di bianco, le gambine penzoloni di traverso a quella accavallata del papà, la testa appoggiata sul suo petto, le mani contratte, il viso rivolto in alto, rigido, e la bocca aperta come un uccellino. E lui non la sfiora, le braccia e le mani chiudono sulla gamba quella specie di rifugio umano che vuol essere per la sua bambina. Il viso appena piegato in avanti, le fa ombra sul viso.
Saprò che questa messa ha concluso i tre giorni del Giubileo degli Ammalati e delle Persone Disabili.
L’omelia del Papa è centrale: «Conosciamo l’obiezione che, soprattutto in questi tempi, viene mossa davanti a un’esistenza segnata da forti limitazioni fisiche. Si ritiene che una persona malata o disabile non possa essere felice, perché incapace di realizzare lo stile di vita imposto dalla cultura del piacere e del divertimento. Nell’epoca in cui una certa cura del corpo è divenuta mito di massa e dunque affare economico, ciò che è imperfetto deve essere oscurato, perché attenta alla felicità e alla serenità dei privilegiati e mette in crisi il modello dominante. Meglio tenere queste persone separate, in qualche “recinto” – magari dorato – o nelle “riserve” del pietismo e dell’assistenzialismo, perché non intralcino il ritmo del falso benessere. In alcuni casi, addirittura, si sostiene che è meglio sbarazzarsene quanto prima, perché diventano un peso economico insostenibile in un tempo di crisi».
Parole chiarissime, largamente riportate dai media, che oltre ogni fede, al di là delle ideologie, sono difficilmente opinabili.
È dura, nonostante la dolcezza del tono, la scelta di libertà che il Papa spiega e propone: «In ogni caso, esse [fragilità e malattie, N.d.R.] pongono in maniera più acuta e pressante l’interrogativo sul senso dell’esistenza. Nel nostro animo può subentrare anche un atteggiamento cinico, come se tutto si potesse risolvere subendo o contando solo sulle proprie forze. Altre volte, all’opposto, si ripone tutta la fiducia nelle scoperte della scienza, pensando che certamente in qualche parte del mondo esiste una medicina in grado di guarire la malattia. Purtroppo non è così, e anche se quella medicina ci fosse, sarebbe accessibile a pochissime persone».
«Il modo in cui viviamo la malattia e la disabilità è indice dell’amore che siamo disposti a offrire. Il modo in cui affrontiamo la sofferenza e il limite è criterio della nostra libertà di dare senso alle esperienze della vita, anche quando ci appaiono assurde e non meritate».
Gli strumenti che indica il Papa, è ovvio, sono quelli della fede, ma anche chi non la possiede non può restare indifferente di fronte a questa lucidità di pensiero che ribalta la tradizionale posizione assistenzialista della Chiesa (che pure ha salvato la vita a tante persone) e la visione rassegnata e ineluttabile dell’«ognuno abbracci la sua croce», riferita ai credenti con disabilità e ai loro familiari.
Papa Francesco va oltre, sottolineando, com’è giusto, le abilità anche riguardo ai Sacramenti. Riconosce anche alle persone con disabilità intellettiva la capacità di comprendere il Cristo poiché Egli abita in ogni cuore. Lo ha detto l’11 giugno, a conclusione del convegno promosso dall’Ufficio Catechistico Nazionale CEI (Conferenza Episcopale Italiana), per il venticinquennale del Settore per la Catechesi delle Persone Disabili della stessa CEI, occasione in cui ha volutamente lasciato da parte il discorso ufficiale per parlare a braccio e anche rispondere a domande di persone con disabilità, volontari e sacerdoti.
Con i sacerdoti che rifiutano la catechesi o i Sacramenti alle persone che, secondo loro, non sono in grado di comprenderli, non è stato tenero, come già sottolineato da Salvatore Nocera su queste stesse pagine.
L’amore in senso cristiano, sempre operoso e mai sentimentale, è la discriminante. L’impegno marca la differenza tra chi agisce per pietà e chi ascoltando apprende una realtà diversa. Lo ha chiamato «apostolato dell’orecchio»: «Le storie sono simili – ha spiegato- ma le persone sono diverse».
Fortissima e difficile, un’esortazione: «Non esiste solo la sofferenza fisica; oggi, una delle patologie più frequenti è anche quella che tocca lo spirito. È una sofferenza che coinvolge l’animo e lo rende triste perché privo di amore. La patologia della tristezza. Quando si fa esperienza della delusione o del tradimento nelle relazioni importanti, allora ci si scopre vulnerabili, deboli e senza difese. La tentazione di rinchiudersi in se stessi si fa molto forte, e si rischia di perdere l’occasione della vita: amare nonostante tutto. Amare nonostante tutto!».
Oltre alle persone con disabilità, quanti familiari, credenti e non, pagano lo scotto di amicizie, parentele, rapporti sul luogo di lavoro che si assottigliano in presenza di una disabilità? Spesso ci si chiude, soffrendo la mancanza di impegno da parte della società. Come se la disabilità riguardasse solo chi la vive, come se non fosse una condizione della vita di tutti, ma una iattura che capita ad alcuni “sfortunati”. «In realtà – ha spiegato il Pontefice – tutti prima o poi siamo chiamati a confrontarci, talvolta a scontrarci, con le fragilità e le malattie nostre e altrui».
La cosa difficile, da persone coinvolte, è quell’«amare nonostante tutto», che non vuol dire «porgere l’altra guancia» per “prenderle ancora”, bensì mettersi al servizio della società, impegnandosi a insegnare la condizione di disabilità a chi non la vive e non la può comprendere. Una sorta di “volontariato al contrario”, finalizzato al superamento di una barriera culturale più che invisibile nascosta, e per questo molto insidiosa: quella del timore di sbagliare nei confronti di una persona con disabilità.
Non è la condizione fisica a rendere una persona disabile, è il contesto in cui vive: «Quante persone disabili e sofferenti si riaprono alla vita appena scoprono di essere amate! – ha sottolineato il Papa -. E quanto amore può sgorgare da un cuore anche solo per un sorriso! La terapia del sorriso. Allora la fragilità stessa può diventare conforto e sostegno alla nostra solitudine».
P.S.: Il testo dell’omelia può rivelare anche a un non credente qualcosa di simile a delle “linee guida per la sana gestione della disabilità”. Tanto è potente la sua efficacia comunicativa.
La presente riflessione è già apparsa in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “L’abilità di fronte alla disabilità che Francesco ci sa suggerire”. Viene qui ripresa, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
Articoli Correlati
- Simone è “urlo di gioia e muro di sabbia” È stato definito così Simone, figlio trentunenne con disabilità di Franca, ed è la stessa madre a raccontare la storia di un “‘progetto di vita”‘ costruito giorno dopo giorno, dall’infanzia,…
- Dialogo su disabilità e fede «Come si può fare la volontà di Dio - scrive Tonino Urgesi -, se non dando a chiunque dignità e possibilità di vivere la propria vita e i propri desideri?».…
- Il Disegno di Legge Zan e la disabilità: opinioni a confronto Riceviamo un testo dal sito «Progetto Autismo», a firma di Monica Boccardi e Paolo Cilia, che si riferisce, con toni critici, a un contributo da noi pubblicato, contenente due opinioni…