Poche settimane fa è stata emanata la cosiddetta Legge sul “Dopo di Noi” [Legge 112/16, “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare”, N.d.R.], accolta tiepidamente da chi si aspettava una parola definitiva sulla de-istituzionalizzazione, in particolare delle persone con disabilità intellettiva e relazionale.
Nel giro delle tante opinioni, valgono quelle autorevolissime di Carlo Giacobini, direttore responsabile del Servizio HandyLex.org e direttore editoriale di «Superando.it», la testata che ospita queste mie riflessioni, che pochi giorni fa ha offerto un’ottima analisi tecnica su ciascuno dei dieci articoli della Legge, e di Sergio Silvestre, presidente nazionale del CoorDown (Coordinamento Nazionale Associazioni delle Persone con Sindrome di Down), che considera la norma «non un traguardo, ma un punto di partenza», forte dell’esperienza di vita indipendente che il CoorDown stesso sta proponendo da alcuni anni.
Dal canto suo, l’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) ha sottolineato positivamente che la legge tende finalmente a de-istituzionalizzare, ovvero a conservare le persone disabili gravissime e senza supporto genitoriale in àmbito il più possibile domestico, attraverso un progetto personalizzato e un’avanzatissima connessione tra famiglia, fondi pubblici e terzo settore. Invita infine a vigilare sui decreti attuativi.
«Non è sufficiente – chiarisce infine Vincenzo Falabella, presidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) – prevedere in legge che il “Dopo di Noi” riguardi anche percorsi di deistituzionalizzazione, ma è necessario impedire che quelle istituzioni continuino ad esistere, siano accreditate, convenzionate e finanziate con soldi pubblici».
Anche l’opinione pubblica dei non addetti ai lavori – suggestionata dalla cronaca generalista che riporta esclusivamente storie di violenze su persone disabili in strutture comuni – si è scagliata contro questa Legge, considerandola insufficiente a garantire la scomparsa dei centri residenziali e misconoscendo le tantissime realtà positive che si stanno moltiplicando sul territorio, temendo addirittura il ritorno ai manicomi. Senza considerare, tuttavia, che anche una casa privata è, molto più spesso di quanto non si immagini, un’“istituzione totale” in cui i tempi e i modi delle persone con disabilità non trovano accoglienza e in cui, su di loro, si arrivano a perpetrare reati gravissimi, sia da parte di badanti e assistenti, sia da parte dei familiari. Anche di questo, infatti, parla la cronaca.
Evidentemente, non è il tipo di residenza che fa dell’assistente un reo, bensì il contesto e, soprattutto, la scelta personale. Non è raro che le violenze inflitte dal personale delle residenze per persone disabili siano state denunciate dagli stessi colleghi dei rei.
Tutto questo aggrava un clima già arruffato e indisponente attorno a una Legge che – come tutte quelle chiamate a rispondere a una domanda di welfare annosa e dalle proporzioni abissali – è certamente insufficiente sia sul piano del merito che su quello del metodo. Ma c’è. “Brutta, sporca e cattiva”, ma c’è.
La Legge va nella giusta direzione quando, rappresentando una più diffusa consapevolezza della dignità delle persone disabili, indica nella de-istituzionalizzazione la via da seguire senza indugio. Però da qui a eliminare del tutto i centri residenziali, considerandoli il male per antonomasia o pensare alla residenzialità domestica come unica possibilità di gestione di una persona con disabilità, è antistorico. Così facendo, non si tiene conto dei diversi contesti in cui le persone con disabilità vivono.
Non sempre le famiglie sono in grado di rispondere alle esigenze dei loro cari con disabilità. Se veramente al centro dell’attenzione del Legislatore dev’esserci – come indica la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità – il desiderio della persona disabile e la sua scelta, questa va ascoltata e accolta anche quando non coincide con la nostra. A maggior ragione quando la persona non è in grado di rappresentare se stessa, bisogna tentare di coglierne il desiderio. Attraverso una ricostruzione storica dei suoi comportamenti, infatti (tenere un diario è fondamentale), si potrebbe scoprire che quella persona non è adatta a una permanenza nella casa in cui ha sempre vissuto. O in un appartamento privato condiviso con altre persone disabili e sconosciute. Chi non sa gestire la sofferenza e non possiede il senso del tempo, può trovarsi a disagio in una casa che, svuotata dagli affetti, viene privata delle cure e dei piccoli riti che scandiscono le giornate dei suoi abitanti.
L’articolo 19 della Convenzione ONU (Vita indipendente ed inclusione nella società) recita: «Le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione.» Chi può mai possedere certezze sui reali desideri delle persone che non sanno rappresentare se stesse?
Ecco quindi che assecondare la Convenzione ONU in merito alla dignità abitativa delle persone con disabilità comporta un intervento più complesso della semplice chiusura dei centri residenziali.
Su tale complessità, Carlo Giacobini, sin dallo scorso mese di febbraio, aveva espresso in «Superando.it» [“Dopo di noi: l’occasione perduta”, N.d.R.], una tanto amara quanto raffinata riflessione, che purtroppo non ebbe alcuna eco nelle Aule Parlamentari, sovrastate da troppe voci di “addetti ai lavori”, ciascuno con i propri argomenti, nel tentativo di rendere più “adatta” una Legge che è nata da ben sei proposte ed emendata da un certo numero di associazioni e movimenti che hanno escluso, gioco forza, gli anziani. Come se non fosse sempre la famiglia a gestire una persona anziana.
Il problema della sistemazione non nasce solo con la morte dei genitori, ma anche con l’alterazione delle dinamiche familiari. Anche se la consapevolezza e l’intraprendenza dei genitori dei ragazzi con disabilità stanno crescendo in maniera straordinaria, non si può dire che le famiglie siano sempre formate da genitori attenti e fratelli amorevoli che vivono in case di proprietà, adeguate alle esigenze dei figli disabili.
Altre volte le famiglie, pur non volendo, sono costrette ad operare delle scelte scomode e dolorosissime. Chi non ha mai posseduto una casa o chi durante questa crisi economica l’ha persa, cosa fa? E le famiglie con case proprie, ma inadeguate rispetto alle esigenze di un adulto con disabilità, in quali soluzioni può sperare? Oltre a prendere le botte, certe madri sole nell’emergenza, in chi o in cosa possono sperare?
Ci sono famiglie con due o tre figli autistici o con altre disabilità intellettive e/o relazionali; e famiglie con figlio e genitori anziani (che non sono tra i destinatari di questa Legge) con disabilità intellettiva o – nonni e nipoti – con altre gravi forme di non autosufficienza. Dove vivranno questi figli? Forzatamente in un altro appartamento con altre due o tre persone con cui non è detto che si instaurino buone dinamiche interpersonali? O avranno la libertà di scegliere, secondo le indicazioni della Convenzione ONU, soluzioni comunitarie di più ampio respiro? O possiamo prevedere (e dovremmo) passaggi diversi nel corso di un’intera vita vissuta senza supporto familiare?
«Incrollabilmente – ha scritto Giacobini – dobbiamo ritenere che sia diritto di ognuno scegliere dove vivere, come vivere e con chi vivere. Utopie? Sogni? No, piuttosto sfide culturali, politiche, organizzative, che qualcuno ha già raccolto e vinto, restando tuttavia annoverato fra le buone quanto irriproducibili e disperatissime prassi».
Le buone prassi, molte delle quali ben consolidate, in realtà sono in rapida espansione. Altre sono così robuste che esistono da moltissimi anni. Ma insistono sul territorio “a macchia di leopardo”.
Il concetto di segregazione, nella realtà dei fatti, è straordinariamente legato anche alle pareti domestiche e riferito a tutte le persone, anche senza disabilità, che si trovano a subire forme sottilissime di violenza psicologica, quando non fisica, a volte semplicemente vedendosi negare la soddisfazione di un bisogno specifico o subendo l’imposizione di tempi e modi che non sono i propri.
E quando parliamo di buone prassi, non possiamo non considerare l’intervento dei privati, delle Fondazioni che avviano i progetti o li sostengono. Del Terzo Settore, per dirla in breve.
Se c’è un pregio in questa Legge, è proprio quello di avere delineato un meccanismo che coinvolge le famiglie, i fondi pubblici e il privato. Ridurre la questione all’ingresso dell’istituto del trust [istituto di origine anglosassone che consente di spossessarsi, con agevolazioni fiscali, di patrimoni propri, in funzione di un vantaggio o beneficio futuro, N.d.R.] tra gli articoli di legge, è riduttivo.
Purtroppo, però, è tutto troppo slegato, manca la trama su cui sviluppare il disegno, il contesto in cui ciascuno trovi collocazione nel fare la sua parte. Ma questo forse non dipende dalla Legge, quanto piuttosto dalla nostra volontà di applicarla e di chiederne i miglioramenti in favore dei nostri cari e non di un’ideologia o di un ragionamento astratto.
Giacobini è inappuntabile quando scrive sempre in «Superando.it»: «Altrettanto fragili sono poi le convinzioni che la capacitazione, il rafforzamento dell’autonomia personale, la realizzazione della vita indipendente debbano essere concretamente perseguite, non solo e tanto immettendo risorse nel sistema, ma con un profondo ripensamento dei servizi e dei sostegni che pongano al centro la persona, non come “soggetto da prendere in carico” o come “carname da RSA” [Residenza Sanitaria Assistenziale, N.d.R.], ma piuttosto come latore di risorse, pur residue, da potenziare, esaltare, usare. Si prosegue a non comprendere che, trasformando la spesa in investimento, avremmo meno famiglie disperate e meno metri cubi di residenze più o meno protette».
E tuttavia qualcosa si è mosso. Anche nelle coscienze e nel comune sentire. Il presente potevamo giocarcelo meglio, ma ciò che viviamo oggi, tre o quattro anni fa non osavamo immaginarlo. Sarà sempre più importante che l’esperienza e la testimonianza dei genitori che fanno squadra nel costruire il futuro dei figli acquisisca sempre maggiore valore sociale, per dimostrare una volta di più che la vita, accanto a un figlio con disabilità, è possibile.