Sono rimasto molto stimolato dall’interessantissimo articolo di Simona Lancioni, pubblicato da «Superando.it» e intitolato Alcuni delicati interrogativi etici, perché pone una serie di quesiti assai intriganti circa la possibilità di concepire o mettere al mondo figli da parte di persone con malattie ereditarie. E ciò non solo con riguardo alle malattie neuromuscolari, da cui prende spunto quel testo, ma in generale nei confronti di tutte le malattie ereditarie, come ad esempio la retinite pigmentosa che porta alla cecità assoluta, la sordità ereditaria e così via.
Ebbene, ritengo che i problemi non riguardino soltanto la decisione assai difficile se interrompere o meno la gravidanza, in caso di accertata sicurezza o forte probabilità della nascita di un figlio con disabilità, ma anche quella meno traumatica, ma forse assai più sottile, sul fatto se il nascituro accetterà il proprio stato.
Quanto al primo grossissimo problema, la prospettazione laica di Lancioni a me, cattolico, sembra pienamente condivisibile, lasciando alla libera scelta della madre la decisione se abortire o meno, con queste parole: «Chi, per un qualunque motivo, ritiene che la vita sia inviolabile sin dal concepimento, oppure pensa che la presenza di una patologia fetale non sia una ragione valida per interrompere una gravidanza, fa benissimo a fare scelte in armonia con il proprio sentire. Chi invece, esaminando la propria personale situazione, non se la sente di portare a termine un percorso intrapreso, fa altrettanto bene a fermarsi». Questo, infatti, riguarda la scelta della madre con riguardo a se stessa e ai problemi etici della sua coscienza, vissuti secondo la sua personale e incoercibile responsabilità.
A me, però, interessa di più l’altro ordine di problemi, concernente, come detto, la situazione esistenziale del figlio, quando prenderà consapevolezza della propria disabilità e come la saprà vivere.
Penso dunque a chi, prima ancora del concepimento, si pone il problema se procreare o meno. Un rifiuto di concepimento, come accenna Lancioni, potrebbe far sorgere il sospetto che la donna o l’uomo non accettino la situazione esistenziale del partner con disabilità. E questo problema psicologico è vissuto sempre dalla parte dei possibili procreatori. Ma credo sia doveroso porsi pure il problema dal punto di vista del nascituro e, ripeto, su come egli accetterà il suo stato.
Ovviamente le condizioni di contesto culturale, sanitario e sociale in cui verrà a vivere saranno variabili importanti circa l’ipotesi di una maggiore o minore accettazione. Ma, a mio avviso, rimane sempre l’interrogativo: come mio figlio vivrà la sua consapevolezza di essere persona con disabilità, anche indipendentemente dall’“addebitarla” ai genitori?
Personalmente ritengo di non condividere la posizione intellettuale di chi ritiene che “disabile è bello”, come ad esempio fanno i componenti del gruppo americano di “Orgoglio Sordo” (Deaf Pride), i quali , sordi, si impegnano a non sottoporsi ad alcun intervento sanitario per acquistare l’udito, essendo orgogliosi di questo loro stato.
E anche Lancioni mi pare non condivida la tesi di quanti ritengono doveroso il ricorso a tecniche preventive, con ciò per nulla rifiutando lo stato di disabilità del partner. Scrive infatti: «Ma le coppie interessate da patologie genetiche che, nel momento in cui decidono di avere un figlio, intraprendono un percorso di prevenzione delle proprie malattie sono intenzionate a disconoscere il diritto alla vita delle persone con disabilità? Pensano che la stessa vita del/la partner disabile sia indegna di essere vissuta? Decisamente no! Prova ne sia che molte di loro sono attive nella promozione della vita piena, integrata, consapevole e completa delle persone con disabilità».
A seguito delle indagini preventive, quindi, ogni coppia o partner decide, ovviamente con minori timori in caso di percentuali scarse di nascite con disabilità, meno serene e assai più travagliate in presenza di percentuali molto più alte o addirittura di certezza.
Da parte mia condivido l’opinione che il rifiuto di procreare in tali circostanze non sia né una discriminazione verso le persone con disabilità, né un mancato discernimento tra “persona in potenza” o “persona in atto “. Ribadisco invece che qui il problema assai delicato sia di assumersi o meno la responsabilità di mettere al mondo una persona che non si sa come reagirà alla propria disabilità. E questo è un dubbio talora ancor più lancinante di quello che riguarda le proprie scelte etiche.
Presidente nazionale del Comitato dei Garanti della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) della quale è stato vicepresidente nazionale.
Articoli Correlati
- L'integrazione scolastica oggi "Una scuola, tante disabilità: dall'inserimento all'integrazione scolastica degli alunni con disabilità". Questo il titolo dell'approfondita analisi prodotta da Filippo Furioso - docente e giudice onorario del Tribunale dei Minorenni piemontese…
- Nell’arcipelago della sordità L’origine italo-tedesca e la disabilità uditiva con cui Martina Gerosa convive fin dalla nascita ne hanno certamente favorito la capacità di guardare alle persone e alle cose da punti di…
- La retinite pigmentosa Una scheda sulla retinite pigmentosa, malattia ereditaria contraddistinta da un progressivo deterioramento della retina che perde la capacità di trasmettere le immagini al cervello. Si tratta della prima causa di…