Ringrazio sentitamente Salvatore Nocera per avere deciso di contribuire al dibattito sul tema della prevenzione delle patologie ereditarie, allargando la riflessione anche a malattie diverse da quelle neuromuscolari. Nel mio precedente intervento, avevo volutamente ristretto il campo solo a queste ultime, perché sono quelle che conosco meglio, sia per motivi personali (il mio compagno di vita è interessato da una forma di atrofia muscolare spinale), sia per la mia esperienza più che ventennale alla UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare).
Non ritengo che il semplice elemento dell’ereditarietà mi autorizzi a credere che la riflessione in ordine ad altri tipi di patologie ereditarie sia automaticamente “sovrapponibile” alla mia, penso invece che possano esserci delle valutazioni simili, ma preferirei che le esprimessero – se si sentono di farlo – coloro che hanno esperienza e conoscenza diretta, o molto ravvicinata, delle altre patologie.
Quello della prevenzione delle patologie è un tema difficile, spesso doloroso, che le coppie si trovano ad affrontare in solitudine. Ho conosciuto coppie che hanno scelto di avere più figli con disabilità, e ne ho conosciute altre che hanno scelto di prevenirne la nascita attraverso le indagini prenatali e l’aborto terapeutico. Qualcuna sta tentando un percorso con la procreazione medicalmente assistita (PMA). Nessuna di esse ha agito a cuor leggero. E, onestamente, non saprei valutare chi ha fatto la “scelta più giusta”. Mi sembra più corretto dire che hanno fatto la scelta che procurava loro meno dolore. Quella più sopportabile per loro.
Nocera, correttamente, si interroga circa l’eventualità che il nascituro accetti o meno il proprio stato di disabilità.
Non credo sia possibile rispondere alle domande esistenziali di persone inesistenti o, se si preferisce, ipotetiche. Possiamo però osservare come vivono le persone con disabilità esistenti. Così scopriamo che alcune di esse (voglio credere che siano la maggioranza, ma in realtà non lo so) sono riuscite a trovare un equilibrio soddisfacente o, quanto meno, accettabile. Un equilibrio instabile e soggetto a continue “contrattazioni”, dal momento che questo tipo di patologie sono ingravescenti. Altre persone, invece, quell’equilibrio non lo hanno mai raggiunto, oppure lo hanno raggiunto e poi lo hanno smarrito assieme alla perdita di autonomia, alla progressiva paralisi dei muscoli, alle difficoltà respiratorie o, ancora, assieme alla morte di un fratello o di una sorella con la stessa patologia. Uno specchio così crudele e spietato da sembrare forgiato da un “Principe del Male”.
Credo che di nessun figlio o figlia – ma nemmeno di alcuna persona con o senza disabilità – si possa dire a priori se sarà felice o meno e, dunque, anche in questo caso possiamo solo interrogare la nostra coscienza, la quale, almeno in teoria, dovrebbe essere più perscrutabile.
È la nostra coscienza a suggerirci se – nella specifica situazione, in quel dato momento della vita, considerando l’intesa di coppia, le risorse (non solo economiche) disponibili, la presenza o meno di una rete di riferimento e di supporto, la propensione e l’idoneità ad assumere il ruolo di caregiver (ossia a prestare assistenza continuativa)… – davanti a quel bivio dovremmo prendere una direzione o l’altra, ben comprendendo che in nessun caso ci è dato di sapere prima dove ci condurrà la strada intrapresa.
C’è poi un altro tema al quale mi preme accennare, che chiamo il “dolore senza nome”. È quello che provano i genitori che sopravvivono ai propri figli, giacché alcune patologie neuromuscolari hanno come esito una mortalità precoce.
Se perdi i genitori sei orfano/a. Se perdi un coniuge sei vedovo/a. Ma se perdi un figlio cosa sei? Non c’è un termine che ti definisca, e per di più ti senti annientato/a. Ecco, forse potrebbe aiutare iniziare a nominarlo quel dolore, non per lenirlo – non credo basti un nome per fare questo -, ma almeno per sfuggire quella sorta di “universo parallelo” in cui finiscono le persone che lo sperimentano. Un “universo” che, essendo innominato, finisce col rendere invisibile chi lo abita.
Non credo sia corretto parlare di prevenzione senza parlare anche di questo, per il semplice motivo che la speranza di vita è un elemento di valutazione abbastanza rilevante per le coppie che desiderano avere un figlio. E se brevità non è sinonimo di insignificanza – chi si occupa di disabilità lo sa benissimo –, il timore di uscire devastati da questo tipo di esperienza non è privo di una sua consistenza.
So perfettamente di non avere una risposta soddisfacente per neanche uno degli aspetti a cui ho accennato. Infatti, per ognuno di essi è possibile esprimere argomentazioni opposte, tutte eticamente plausibili. Pertanto non credo sia realistico, e nemmeno desiderabile, aspettarsi che un’unica risposta possa andar bene per persone e situazioni completamente differenti. Credo invece – e lo credo fortemente – che solo una riflessione collettiva possa accrescere la consapevolezza su questi temi, giacché siamo esseri parziali e condizionati dalle nostre esperienze, e solo nel confronto possiamo sperare di cogliere quei pezzi che ancora ci mancano, ma che sono indispensabili per avere una visione d’insieme.
Sociologa, componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). La presente riflessione è già apparsa nel sito dello stesso Gruppo Donne UILDM, con il titolo “Solo una riflessione collettiva può darci una visione d’insieme” e viene qui ripresa, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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