Sin dai giorni delle Olimpiadi di Rio de Janeiro, e anche in precedenza, sono apparsi sempre più spesso gli spot televisivi sulle Paralimpiadi. Una novità, questa frequenza di programmazione, che molti hanno notato. È una nota sull’agenda dei telespettatori, la sottolineatura di un appuntamento, una promessa di grande sport che chiede a tifosi e spettatori di esserci. L’Olimpiade continua così, senza distinzioni, sembra voler dire Raidue. Grandi gesti atletici e grandi storie attendono ancora il pubblico generalista.
E se già l’Olimpiade di Rio de Janeiro è stata giocata in un contesto di grande bellezza, grazie ai tanti retroscena dovuti alla ricchezza delle storie personali, c’è da ben sperare riguardo alle Paralimpiadi.
Ma perché il pubblico generalista possa goderne pienamente e la cultura paralimpica possa davvero diventare “per tutti”, sarebbe davvero importante che la RAI, oltre a trasmettere gli eventi su RaiSport, come sempre, aggiungesse anche una rubrica riepilogativa delle gare su uno dei canali principali, com’è stato fatto per le Olimpiadi su Raidue. I buoni eventi, le buone prassi hanno bisogno infatti di una congrua comunicazione, per non rimanere episodi splendidi e isolati.
La RAI, certamente già molto presente con degli spot notevoli anche per la correttezza del messaggio (uno dei pericoli dello sport paralimpico, infatti, è la sua lettura “superomistica”), un passo alla volta saprà trovare il modo.
Londra 2012 ha decisamente segnato la svolta, consegnando definitivamente la Paralimpiade al grande pubblico dei non addetti ai lavori. Rio 2016 potrebbe diventare il codice per comprendere definitivamente lo sport dei disabili: si guardano le abilità, non la disabilità. Lo sport paralimpico è sport. Esigente, duro, senza sconti; che richiede grandi sacrifici per ottenere gradualmente buoni risultati. Non è “attività fisica per poveretti” che devono pure distrarsi e nemmeno il “circo dei superuomini”. Allenamento e costanza, lo sport è uguale per tutti. La differenza è che viene adattato, ma non ridotto, a chi ha disabilità. I gesti atletici sono di grande valore.
Chi ha assistito, almeno una volta, ad una gara sportiva con atleti con disabilità non può più fare a meno di misurare tutto lo sport con quel parametro.
Anche le Olimpiadi conclusesi il 21 agosto, del resto, hanno celebrato corpi imperfetti. Come Kathleen Baker, nuotatrice diciannovenne americana che ha vinto il bronzo nei 100 metri dorso con il morbo di Crohn, una patologia autoimmune fortemente invalidante. E come Michael Phelps, il più grande nuotatore di tutti i tempi, che da bambino trovò nel nuoto un mezzo valido per contrastare la sindrome ADHD (disturbo da deficit di attenzione/iperattività).
E ancora, il nostro Gregorio Paltrinieri, splendida medaglia d’oro sui 1500 metri stile libero, è stato a lungo considerato imperfetto per la sua nuotata poco elegante. «Il fattore estetico – racconta – ha sempre inciso sui giudizi che davano alla mia nuotata. Io invece ho continuato a crederci. Forse è una nuotata adatta solo a me, l’ho adattata alle mie caratteristiche fisiche e a come penso il nuoto. Io voglio davvero stare sulla cresta dell’onda».
Adattare il gesto atletico alle caratteristiche fisiche è lo stesso ragionamento che sottende lo sport paralimpico. Per questo le Olimpiadi di Rio 2016, così fortemente connotate dal principio di uguaglianza nelle diversità che ha animato sia le scelte istituzionali, dalla squadra dei rifugiati politici voluta dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale) ai cinque cerchi olimpici arborei e uguali; sia le scelte personali, dalle coppie dichiaratamente omosessuali alle atlete islamiche chiuse nei loro pesanti abiti di gara che pure hanno gareggiato con onore; tutto ha disegnato il contesto perfetto per il passaggio di testimone dalle Olimpiadi alle Paralimpiadi, differite solo nel tempo (7-18 settembre), ma perfettamente sovrapponibili nel valore e nello spirito.