L’articolo pubblicato nei giorni scorsi da «Superando.it», con il titolo Inclusione, discontinuità didattica e formazione degli insegnanti, a firma di alcuni docenti specializzati e formatori, non solo “rilancia” un dibattito ormai attivo da oltre un anno, ma ci spinge a condividere alcune considerazioni di approfondimento.
In esso, con un’analisi del tutto condivisibile, viene rimarcata l’importanza fondamentale del contesto, per un reale successo dell’inclusione e si sottolineano altresì le molteplici incertezze e approssimazioni dei servizi. Concordo anch’io che la vera debolezza del nostro processo di inclusione stia nell’inadeguatezza del contesto, ma credo che per porvi rimedio occorra individuarne le cause. L’errore è stato avere concentrato per anni la nostra attenzione sull’insegnante di sostegno, interpretandolo sempre, nel bene e nel male, quale responsabile del successo o meno dell’inclusione. E anche l’articolo citato sembra, ancora una volta, cercare la soluzione nel ruolo della figura di sostegno.
Tutti sappiamo che la normazione dell’integrazione scolastica prende avvio in modo organico con la Legge 517 del 1977 che definisce modalità e strumenti per la sua realizzazione. E tuttavia sono forse in pochi a ricordare che all’articolo 2 di quella norma, in riferimento all’inclusione nella scuola primaria, si legge: «Ferma restando l’unità di ciascuna classe, al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la promozione della piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni. Nell’ambito di tali attività la scuola attua forme di integrazione a favore degli alunni portatori di handicaps con la prestazione di insegnanti specializzati assegnati […]».
Allo stesso modo, per quanto concerne la scuola secondaria di primo grado, all’articolo 7 si precisa che: «Al fine di agevolare l’attuazione del diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno, anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni. Nell’ambito della programmazione di cui al precedente comma sono previste forme di integrazione e di sostegno a favore degli alunni portatori di handicaps da realizzare mediante la utilizzazione dei docenti, di ruolo o incaricati a tempo indeterminato, in servizio nella scuola media e in possesso di particolari titoli di specializzazione […]».
Non a caso la stessa Legge 517 – visto il ruolo di sostegno “riconosciuto” al contesto – indicava nel rapporto di uno a quattro quello sufficiente a supportare l’integrazione dell’alunno con disabilità.
La scuola di quegli anni era la “scuola del programma”, una scuola con un’organizzazione didattica molto rigida e proprio per questo l’integrazione venne subordinata dalla Legge 517 all’adattamento del contesto e, come si legge chiaramente, sarà proprio «in quell’ambito» che dovrà operare il docente specializzato.
Come tuttavia avviene spesso nel nostro Paese, la norma c’è, ma quando prevede un cambiamento reale, che coinvolga tutto l’insieme, essa viene ignorata e “assorbita”, senza modificare più di tanto la routine. Anche in questo caso, infatti, ci si focalizzò unicamente sull’introduzione della figura dell’insegnante di sostegno, mentre il “contesto” restava fuori dalle attenzioni e rimaneva ai margini del processo.
Nonostante ciò, l’integrazione ebbe comunque successo: erano gli anni dell’attenzione al “diverso”, anni di profondi cambiamenti sociali.
Mentre quindi il sistema stentava a cambiare, nel 1987 la Sentenza 215/87 della Corte Costituzionale apriva le porte della scuola secondaria superiore a tutti gli alunni con disabilità, senza però che ad essa seguisse alcuna riflessone pedagogico-didattica sulle modalità di inclusione in questo ordine di scuola, dove finalità, obiettivi e modalità di valutazione sono molto diversi da quelli della scuola dell’obbligo e dove il contesto è molto meno preparato ad accogliere la disabilità.
Anche in questo caso la risorsa “risolutiva” venne individuata unicamente nel docente di sostegno. Le modalità con cui verranno applicate le indicazioni normative hanno caratterizzato però il modello di integrazione che viene strutturandosi e secondo il quale si realizzerà di fatto l’integrazione stessa.
La strutturazione della scuola rimarrà ingabbiata in un contesto nel quale nella programmazione ordinaria non troveranno posto – o lo troveranno solo saltuariamente – attività scolastiche integrative, attività «organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse» e «a carattere interdisciplinare» e il nuovo docente di sostegno si troverà, di fatto, a dover gestire da solo l’alunno con disabilità. Il processo di inclusione si avvierà così sempre più verso quel modello che lo ha portato all’attuale stato di inefficacia.
Credo sia chiaro a tutti che per realizzare la “scuola di tutti e per ciascuno”, non si possa avere un’organizzazione didattica che preveda per tutti l’insegnamento delle stesse cose nello stesso tempo (sarebbe come pretendere che gli alunni della stessa classe portassero tutti lo stesso numero di scarpe); viceversa, occorre una didattica inclusiva del contesto attenta ai bisogni individuali. Nei fatti, però, nulla o poco, nel corso degli anni, è cambiato nell’organizzazione scolastica e nella didattica, nemmeno quando alle scuole è stata data l’autonomia didattica, con la possibilità, attraverso il POF (Piano dell’Offerta Formativa), di differenziare fino al 20 per cento il curriculum, in sede di programmazione.
La stessa Legge Quadro 104/92 – certamente una legge fondamentale per la realizzazione dell’inclusone dei disabili – pur ribadendo da un lato che il sostegno è da intendersi alla classe, dall’altra parte ha legato il docente di sostegno alla disabilità dell’alunno. Questo è evidente, ad esempio, laddove la norma prevede un rapporto diretto tra gravità della disabilità e numero di ore di sostegno didattico: se è vero, infatti, che la gravità richiede maggior sostegno, non è però altrettanto vero che ciò debba identificarsi con un maggior numero di ore dell’insegnante di sostegno, né che aumentare tale numero favorisca il processo di inclusione. Purtroppo, però, davanti all’incertezza dei sostegni di tipo diverso (servizi di riabilitazione per l’educazione all’autonomia personale, di avviamento allo sport, di orientamento professionale, assistenti alla persona e alla comunicazione ecc.), le famiglie si sono via via riferite sempre più alla figura del docente di sostegno, quale garanzia dell’inclusione dei propri figli, sviluppando un’errata “cultura dell’inclusione” che, anziché spingerle a operare perché il contesto diventasse sempre più idoneo ad accogliere il ragazzo con disabilità e a “renderlo capace” di affrontare in pari opportunità l’inclusione sociale, sta andando sempre più verso un “modello assistenziale”.
È questa la “cultura distorta dell’inclusione”, che ormai pervade il nostro modello, i docenti e le famiglie, e che rende letteralmente “intoccabile” il numero delle ore di sostegno, anche quando risulta evidente, come nel caso di inclusione di bambini con disabilità visiva anche grave, che esse non servono.
Tornando al tema principale del dibattito, quanto sopra scritto da me, uno dei sostenitori della Proposta di Legge n. 2444 di FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) e FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità), può sembrare contraddittorio con quella stessa Proposta, laddove vi si prevede la separazione delle carriere dei docenti di sostegno, ma è esattamente il contrario. Chiarito infatti che il vero punto debole del processo di inclusione è l’assoluta mancanza di attenzione al ruolo del contesto, quando viceversa proprio il contesto dovrebbe essere il garante di tale processo, è importante all’interno della scuola la presenza di una figura di docente specializzato che sappia operare nella fase di progettazione, sostenendo e orientando il dirigente scolastico, il collegio dei docenti, il consiglio di istituto, i consigli di classe, i docenti titolari di materia a una programmazione inclusiva. Infatti, in un simile contesto, ove i responsabili degli insegnamenti per gli alunni con disabilità siano gli stessi docenti degli altri alunni, risulterà evidente a tutti che l’alunno con disabilità è un alunno della scuola, della classe e non del docente di sostegno e si avvierà quindi la necessaria controtendenza all’attuale modello.
Le altre nostre proposte – nella consapevolezza che una scuola realmente inclusiva richiede di sviluppare in tutto il corpo docente una maggiore attenzione alla diversità – prevedono l’aggiornamento obbligatorio in servizio per tutti. E pensiamo al miglioramento del contesto anche laddove proponiamo la definizione del profilo professionale e del percorso formativo per gli assistenti alla comunicazione e quando individuiamo nei CTS e nei CTI [Centri Territoriali di Supporto e Centri Territoriali per l’Inclusione, N.d.R.] il legame con le risorse del territorio a sostegno dell’inclusione.
Riteniamo non più rinviabile l’avvio di un cammino virtuoso, capace di invertire la tendenza, contrastando questa “distorsione” del nostro modello di inclusione, per il cui successo, però, non basta riorganizzare la scuola, occorre altresì un intervento legislativo organico che, facendo uscire dalla confusione e dalla sovrapposizione delle competenze, dia certezza ai servizi di sostegno sul piano dei finanziamenti, nella definizione delle competenze dei vari Enti e per la formazione del personale operante nei vari servizi.
Ritroviamo insieme l’autentica cultura dell’inclusione, ben delineata nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Diversamente sarà inevitabile un continuo declino di questo nostro prestigioso modello da tutti invidiato, da molti copiato, ma che senza i giusti interventi, visti anche i suoi attuali costi e la poca efficienza, rischia di “sgretolarsi”.