Partiranno tra due giorni a Rio de Janeiro le Paralimpiadi, le Olimpiadi per atleti con disabilità. Nutrita la rappresentanza italiana [101 partecipanti, N.d.R.], con una parola d’ordine comune: siamo innanzitutto atleti.
Si riaccendono quindi qua e là le dispute a cui siamo abituati da anni, da quando il politically correct ha partorito il termine “diversamente abile”, su quale sia il linguaggio adatto da usare, soprattutto nell’informazione. Evitare di aggiungere l’aggettivo disabili dopo il termine atleti, fare inquadrature in TV che non indugino troppo sugli elementi evidenti della disabilità, non focalizzare le interviste scivolando sull’immancabile “nonostante”, parlare degli avversari e non della storia pregressa dei nostri campioni. Tutte considerazioni in materia che non riescono mai a raggiungere un equilibrio stabile, sospese continuamente tra il dire e il non dire.
Dopo le “cicciottelle” del tiro con l’arco alle recenti Olimpiadi, figuriamoci se qualche giornale dovesse uscire con titoli del tipo La freccia a quattro ruote o similari.
Forse chi è disabile dalla nascita o chi lo è diventato dopo una “carriera” di cosiddetta normalità ha sentimenti diversi in materia. Forse qualcuno vive lo sport come solo divertimento, chi lo sente come un riscatto dalla propria condizione, chi si sente olimpionico o chi ancora si sente parte di un movimento dove ci sono situazioni e culture diversissime, da quella strettamente agonistica a quella – all’opposto, potremmo dire, anche se schematicamente – di chi fa sport come una sorta di prolungamento o sostituzione di pratiche terpeutiche.
Insomma lo sport, come il resto della realtà, non ha un linguaggio univoco per essere raccontato e in fondo chi va a Rio lo fa dentro e grazie a una storia che va molto indietro nel tempo, fatta di logiche sanitarie, sociali, sportive che si sono scavalcate, intrecciate, scontrate. Fatta da anonimi dilettanti e da campioni sempre sotto il riflettore dei media, anche se c’è da riconoscere che nella logica dei media hanno più successo i “famosi diventati disabili”, piuttosto che i “disabili diventati famosi”.
Insomma, non stracciamoci le vesti sui blog e sui profili Facebook e non teniamo sotto i riflettori solo quell’“atleti”, come vergognandoci o paurosi di tenere dentro al discorso anche la parola “disabilità”, quasi che quel disabili lo potessimo scrivere con un carattere molto, molto più piccolo, come le avvertenze sul contratto di quando apri un conto in banca.
Ciò che di stereotipante e di limitante esiste nell’uso della parola disabili non lo si sconfigge coprendolo con un velo o chiedendogli di assentarsi per un momento, ma avendo il coraggio di passarci e ripassarci attraverso, facendosi carico della quotidiana fatica di questo.