Guardo la sfilata dei nostri atleti durante la cerimonia d’apertura delle Paralimpiadi di Rio de Janeiro e provo una sensazione di sconforto. Di smarrimento. Come se fossi invischiato di ragnatele dentro. Un senso di sgretolamento. Ci sono degli sportivi al centro, accomunati da un fattore diversificante, e attorno una maggioranza di altre persone accomunate dal non condividere quel fattore. Mi domando perché gli atleti comuni da una parte e noi dall’altra. Addirittura gli altri sfilati settimane prima, marcando una netta separazione. Siamo tutti diversi nella nostra comunanza di umanità e uguali nella nostra singolarità di persone. Le Olimpiadi dovrebbero essere Olimpiadi, punto e basta. Allora perché non le “Nerolimpiadi”, le “Biondlimpiadi” e, soprattutto, le “Femminelimpiadi” divise dalle “Maschilimpiadi”?
Alcuni sostengono che la separazione sia necessaria per questioni logistiche. Sembra che sia difficile, ossia costoso, accorpare le due manifestazioni, perché, a questo punto, di due manifestazioni distinte si tratta. Lo ha sancito anche la Cerimonia di Chiusura delle Olimpiadi, che ha rimandato a quelle successive e non alla loro spontanea prosecuzione, cioè le Paralimpiadi. Io immagino che unire le due manifestazioni sia complesso e lo penso a partire proprio dalle esigenze degli atleti con disabilità.
Alloggiare e muoversi in un àmbito sovrappopolato di atleti, come è un Villaggio Olimpico, per una persona con disabilità penso sia più complicato che non all’interno di un ambiente dedicato. Immagino il viavai di persone che si muovono in carrozzina fra quelle cieche e quelle senza deficit che non sia quello della distrazione. Guai in vista. E gli allenamenti affollati come un ipermercato al sabato.
Ma è questa una condizione sufficiente per separare atleti da atleti? È come dire che Olimpiadi maschili e femminili dovrebbero essere distinte perché servono spogliatoi e toilette differenziate. Servono? Si fanno. Si sono fatti. Bisogna creare soluzioni affinché si possa stare insieme, perché se gli atleti sono diversi l’atleta è uno.
Io sostengo che sportivi disabili e non dovrebbero correre nelle stesse categorie, là dove è possibile. Altrimenti dovrebbero correre contemporaneamente. Vuoi mettere i 100 metri per la disabilità corsi nelle stesse giornate in cui corre Bolt con quelli corsi un mese dopo? L’impatto mediatico è differente e la disuguaglianza grava tutta sugli atleti disabili, cioè su tutte le persone con disabilità, che restano vittime dell’esempio. Passa il concetto, in parole povere, che gli atleti con disabilità siano una cosa a parte. Se gli atleti gareggiassero insieme, invece, sarebbe evidente a tutti che si tratta unicamente di sport. E là dove ci sono specialità dedicate agli uni piuttosto che agli altri l’importante è stare nella stessa cornice. Categorie diverse per un solo obiettivo: vincere l’Olimpiade.
Si dirà che le Paralimpiadi tanto bene hanno fatto nel migliorare la cultura della disabilità e che l’interesse mediatico è stato crescente, specialmente a partire dall’edizione di Londra 2012. Vero. Sono d’accordo. Ma non basta. Non sono contro lo sport olimpico per le persone con disabilità, sono contro la selezione a priori. Contro la discriminazione progettuale. Contro regolamenti che potrebbero essere concepiti meglio.
Non escludo – e anzi ritengo – che la divisione fra Olimpiadi e Paralimpiadi sia un compromesso politicamente corretto per invitare la maggior parte possibile dei Paesi a partecipare. Ovvero che sia un espediente per indurre l’adesione di quelle nazioni che non accetterebbero facilmente di mescolare i loro connazionali con disabilità a quelli privi. Ma dobbiamo fermarci al politicamente corretto?
In attesa quindi di una nuova era olimpica, io esigo una cerimonia unica che si chiami Cerimonia d’Apertura delle Olimpiadi e una conclusiva che sia Cerimonia Conclusiva di tutto l’impianto. Via le Paralimpiadi. Se ci sono si deve capire che si tratta di un “sottoinsieme alla pari”. Anzi, invece che metterle in fondo io le metterei in apertura. Partono le Olimpiadi e dai con gli atleti con disabilità. Poi gli altri. E il medagliere? Perché diviso?
C’è il rischio che così facendo non si capisca che le persone con disabilità hanno esigenze particolari e che, in molte parti del mondo, sono ben lontane dall’uguaglianza sociale. Alle Olimpiadi però, proprio perché siamo lì per esprimere il meglio della competitività, bisogna trasmettere che quelle in vetrina sono tutte persone alla pari e non che ci sono lì alcuni “poveretti” a ricevere il loro contentino quadriennale.
Questo, ahimè, è il pensiero che ancora molti percepiscono, si vede dai numerosi commenti sui post al riguardo pubblicati nel web. Ed è quello che ho percepito io guardando dignitosi atleti sfilare in quello che Martina Gerosa, disability e case manager, definisce «un circo con umani anziché animali». Lei, persona con disabilità uditiva, aggiunge che «rendere ciò che è diverso normalità è la sfida di cui preferisce occuparsi». Io sto con lei.
Viva lo sport. Viva gli atleti con disabilità e senza. Viva le Paralimpiadi come viva la Formula Uno: così com’è adesso finisce per piacere quasi solo agli appassionati. È ora di cambiare.
Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Paralimpiadi, è ora di cambiare!”, e qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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