Il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità è un organo che ha il compito di vigilare sull’applicazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvata nel 2006 dall’Assemblea delle Nazioni Unite, e ratificata dall’Italia con la Legge 18/09.
Il 24 e 25 agosto, a Ginevra, il Comitato ha incontrato una delegazione del Governo Italiano per comunicare le Osservazioni Conclusive al primo Rapporto Ufficiale dell’Italia sull’attuazione dei princìpi e delle disposizioni contenute nella citata Convenzione.
Il documento prodotto dal Comitato, articolato in 88 punti, contiene pochi apprezzamenti e molte preoccupazioni, alle quali fanno seguito altrettante raccomandazioni.
Preoccupa, ad esempio, «l’esistenza di molteplici definizioni di disabilità in tutti i settori e nelle regioni, il che porta ad una disparità di accesso al sostegno ed ai servizi. Inoltre, la disabilità continua ad essere definita in una prospettiva medica e il concetto riveduto di disabilità proposto dall’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle Persone con Disabilità non è a sua volta in linea con la Convenzione ed è privo di una normativa vincolante a livello sia nazionale, sia regionale». Seguono altre preoccupazioni in relazione a diritti specifici.
Dell’incontro di agosto a Ginevra si sono occupate molte testate. Dialogo mancato, a Ginevra, sulla Convenzione ONU, si titolava su queste stesse pagine il 30 agosto. Disabilità: troppe disparità territoriali, l’Onu ci chiede di superarle, scriveva Sara De Carli su «Vita» (5 settembre); sempre De Carli intervistava sul tema Giampiero Griffo del FID (Forum Italiano sulla Disabilità), in La Convenzione Onu sulla disabilità? L’Italia non l’ha ancora digerita («Vita», 7 settembre); Disabili, Onu all’Italia: “Stop alle mutilazioni genitali e ai trattamenti medici sui bambini intersessuali”, è invece il titolo del pezzo di Silvia Bia su «Il Fatto Quotidiano.it» (11 settembre). E questi sono solo alcuni degli articoli pubblicati.
Insomma, effettivamente l’Italia la Convenzione ONU l’ha ratificata, ma riguardo all’applicazione c’è ancora molto da lavorare. Delle tante preoccupazioni segnalate, a noi, come Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), sono balzate all’occhio quelle inerenti le questioni legate alla condizione delle donne con disabilità. Questioni a cui il nostro Paese non sembra prestare molta attenzione, come dimostrano i diversi richiami espressamente esplicitati in più punti del documento del Comitato.
Posto che la stessa Convenzione ONU riconosce «che le donne e le minori con disabilità sono soggette a discriminazioni multiple» (articolo 6), entriamo dunque nel dettaglio delle preoccupazioni espresse dal Comitato delle Nazioni Unite.
Il Comitato esprime preoccupazione per «l’assenza di leggi e di strumenti che afferiscono alla discriminazione plurima, compresi efficaci sanzioni e correttivi» (punto 11, grassetti nostri). Ora, se consideriamo che proprio le donne sono maggiormente esposte alla discriminazione plurima in ragione della simultanea appartenenza a due gruppi svantaggiati (donne e persone con disabilità), comprendiamo facilmente sulla vita di chi va ad influire questa lacuna.
Certo, le donne non sono le sole esposte a discriminazione plurima, lo sono in genere coloro che hanno una situazione di multiappartenenza a “categorie” svantaggiate (ad esempio: persone disabili straniere, oppure persone disabili carcerate, persone disabili minori, persone disabili povere ecc.), ma è evidente che in tutti i casi in cui ricorre questo tipo di discriminazione ci troviamo davanti a persone esposte a situazioni di maggiore vulnerabilità.
«Il Comitato è preoccupato perché non vi è alcuna sistematica integrazione delle donne e delle ragazze con disabilità nelle iniziative per la parità di genere, così come in quelle riguardanti la condizione di disabilità» (punto 13) e «raccomanda che la prospettiva di genere sia integrata nelle politiche per la disabilità e che la condizione di disabilità sia integrata nelle politiche di genere, entrambe in stretta consultazione con le donne e le ragazze con disabilità e con le loro organizzazioni rappresentative» (punto 14, nel documento originale il testo è interamente in grassetto).
Il punto 20 riguarda poi il tema dell’accrescimento della consapevolezza delle persone con disabilità, rispetto al quale «il Comitato raccomanda l’adozione di misure per aumentare la sensibilizzazione del pubblico tramite campagne di comunicazione di massa e formazione del personale che opera nei mezzi di comunicazione sugli effetti negativi degli stereotipi e l’importanza di rappresentare i contributi positivi delle persone con disabilità, in particolare delle donne e delle ragazze con disabilità» (anche qui nel documento originale il testo è interamente in grassetto).
Come Gruppo Donne UILDM, attribuiamo una grandissima rilevanza a questo tipo di interventi, poiché riteniamo che la rappresentazione della disabilità abbia importanti influenze su molti altri aspetti. La narrazione scorretta e distorta della disabilità può avere influenza, ad esempio, sull’orientamento dei finanziamenti e degli interventi a livello nazionale o locale. In tal senso, vediamo tutti i giorni che spesso l’appiattimento della disabilità all’età dell’infanzia, col binomio “disabile/bambino”, fa sì che non si tengano adeguatamente presenti i bisogni e le storie delle persone disabili adulte o anziane. Per questo motivo auspichiamo che vengano realizzate trasmissioni e iniziative in cui gli ospiti/protagonisti siano persone con disabilità, purché la rappresentazione sia corretta e rispettosa sia in relazione al genere, sia riguardo la disabilità.
Alla preoccupazione «per la mancanza di misure legislative e di strumenti di monitoraggio per individuare, prevenire e combattere la violenza sia all’interno, sia all’esterno dell’ambiente domestico» (punto 43), segue la raccomandazione «di porre in atto una normativa, compresi gli strumenti di monitoraggio, per individuare, prevenire e combattere la violenza contro le persone con disabilità sia all’interno, sia all’esterno dell’ambiente domestico, in particolar modo quella contro le donne e i minori con disabilità, nonché di produrre un piano di azione per l’attuazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica – Convenzione di Istanbul – che riguarda specificamente le donne e le ragazze con disabilità. Inoltre, devono essere resi disponibili la formazione del personale della polizia, della magistratura, dei servizi sanitari e sociali, in connessione con la messa a disposizione di servizi di sostegno accessibili ed inclusivi per coloro che subiscono violenza, compresi i rapporti della polizia, gli strumenti di reclamo, le case protette e ogni altra misura di supporto» (punto 44, nel documento originale il testo è interamente in grassetto).
Il tema della violenza sulle donne è un tema complesso e che disturba. Disturba le donne perché le costringe a pensare a qualcosa di estremamente doloroso, e a figurarsi in un ruolo passivo. Disturba gli uomini poiché si sentono chiamati in causa come genere, e non è piacevole anche solo ipotizzare di avere qualcosa a che spartire con i carnefici. La violenza sulle donne con disabilità disturba molto di più. Perché è molto più difficile vederla (essa, infatti, può assumere connotazioni specifiche, non immediatamente riconoscibili), perché la disabilità fa paura, perché i servizi pensati per le altre donne potrebbero non essere adatti a loro (ad esempio perché inaccessibili), perché talvolta chi usa violenza ha lo stesso genere della vittima, e questo fa saltare tutta l’impalcatura teorica che indaga la violenza solo in chiave di conflitto tra generi diversi.
Per questo, al di là della solidarietà di principio, si tratta di un fenomeno del quale quasi nessuno/a vuole occuparsi. Per la stessa ragione è importante comprendere che occuparsene non è facoltativo, perché se una donna senza disabilità ha qualche probabilità di scappare dalla violenza, per una donna disabile non autosufficiente la probabilità di sottrarsi alla violenza sono infinitesimali. Eppure le donne con disabilità sono esposte a violenza più delle altre donne e non occuparsene equivale a confermare una condanna.
Anche in tema di salute e di lavoro le donne con disabilità sono penalizzate. Qui il Comitato rileva «la mancanza di accessibilità fisica e delle informazioni relative ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva, includendo la discriminazione e gli stereotipi, in particolare nei confronti delle donne e delle ragazze con disabilità» (punto 61), e raccomanda all’Italia «di garantire l’accessibilità ai presìdi e alle attrezzature, alle informazioni e alle comunicazioni relative ai servizi di salute sessuale e riproduttiva e di prevedere la formazione del personale sanitario sui diritti delle persone con disabilità, in stretta collaborazione con le associazioni rappresentative delle persone con disabilità, e in particolare delle donne con disabilità; inoltre raccomanda di rafforzare gli strumenti di lotta contro la discriminazione e gli stereotipi» (punto 62; nel documento originale il testo è interamente in grassetto).
In tema poi di lavoro, il Comitato «è preoccupato per l’alto tasso di disoccupazione tra le persone con disabilità, in particolare tra le donne con disabilità, e per l’inadeguatezza delle misure per promuovere la loro inclusione nel mercato aperto del lavoro» (punto 69, grassetto nostro), e raccomanda al nostro Paese di darsi da fare per «garantire il conseguimento di un’occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso a tutti, comprese le persone con disabilità, e pari retribuzione a parità di mansione. Inoltre lo Stato Parte deve attuare misure specifiche per affrontare il basso livello occupazionale delle donne con disabilità” (punto 70; nel documento originale il testo è interamente in grassetto).
Quelle esposte sin qui sono le aree di discriminazione nelle quali le donne con disabilità sono più discriminate rispetto agli uomini nella stessa condizione. Ve ne sono però molte altre nelle quali le persone con disabilità sono discriminate in ugual misura, a prescindere dal genere.
In questa sede, solo a titolo esemplificativo, accenniamo al tema della Vita Indipendente, non perché le altre aree non siano importanti (tutt’altro), ma perché riteniamo che questo abbia un’importanza strategica.
Al punto 47, dunque, il Comitato esprime una seria preoccupazione «per la tendenza a re-istituzionalizzare le persone con disabilità e per la mancata riassegnazione di risorse economiche dagli istituti residenziali alla promozione e alla garanzia di accesso alla vita indipendente per tutte le persone con disabilità nelle loro comunità di appartenenza. Il Comitato inoltre nota con preoccupazione le conseguenze generate dalle attuali politiche, ove le donne sono “costrette” a restare in famiglia per accudire i propri familiari con disabilità, invece che essere impiegate nel mercato del lavoro” (grassetti nostri).
Alla preoccupazione segue la raccomandazione: «il Comitato raccomanda: a) di porre in atto garanzie del mantenimento del diritto ad una vita autonoma indipendente in tutte le regioni; e, b) di reindirizzare le risorse dall’istituzionalizzazione a servizi radicati nella comunità e di aumentare il sostegno economico per consentire alle persone con disabilità di vivere in modo indipendente su tutto il territorio nazionale ed avere pari accesso a tutti i servizi, compresa l’assistenza personale” (punto 48; nel documento originale il testo è interamente in grassetto).
L’Italia non ha mai preso particolarmente sul serio le politiche di genere. Che molte donne debbano lasciare il lavoro nel momento in cui scelgono la maternità a causa della mancanza di servizi per l’infanzia, che a parità di mansioni esse siano mediamente meno retribuite dei colleghi uomini, che i Centri Antiviolenza siano finanziati in modo largamente insufficiente e discontinuo, sono solo alcune spie di un’arretratezza che produce iniquità. Pertanto non sorprende che le donne con disabilità non godano di maggiore fortuna.
Delle diverse raccomandazioni espresse dal Comitato ONU, quella che le riassume tutte è «che la prospettiva di genere sia integrata nelle politiche per la disabilità e che la condizione di disabilità sia integrata nelle politiche di genere». In altre parole, se il movimento delle persone con disabilità continuerà a lasciare indietro le donne disabili (non riflettere sulle questioni legate al genere ha questa conseguenza), e se i movimenti femminili continueranno a non considerare la condizione delle donne con disabilità come un tema di propria competenza, non è solo il Governo Italiano a dover cambiare politiche. Siamo noi Cittadini e Cittadine, con o senza disabilità, a doverci porre qualche domanda sul nostro livello di assuefazione alle disuguaglianze di genere, e sulle conseguenze che le disuguaglianze (tutte, non solo quelle di genere) hanno sulle nostre vite.
Alla luce quindi di quanto esposto, come Gruppo Donne UILDM, chiediamo che trovino pronta attuazione tutte le raccomandazioni inerenti la maggiore discriminazione delle donne con disabilità espresse dal Comitato ONU nel documento esaminato. Inoltre, essendo la parità tra uomini e donne uno dei princìpi generali della Convenzione ONU, chiediamo alle Istituzioni che tutte le linee di intervento considerate nella “Proposta di II Programma di Azione Biennale per la Promozione dei Diritti e l’Integrazione delle Persone con Disabilità” siano rilette anche nella prospettiva di genere, e raccomandiamo che questa revisione sia effettuata in accordo con l’approccio espresso nel “Secondo Manifesto sui Diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea” (qui la versione in lingua inglese di quest’ultimo).