Mi trovavo in giro per il mio paese, quando una bimba si è avvicinata alla mia carrozzina, iniziando a giocare con il joystick e con i vari pulsanti di essa. La madre le ha detto: «Lascia stare, non si fa!».
La suddetta frase, che apparentemente può sembrare così normale, in realtà nasconde un significato diverso: quella madre non stava educando la propria figlia. La bimba, infatti, che avrà avuto presumibilmente 4 o 5 anni, stava esplorando il mondo, il suo universo, e si è sentita dire dalla madre «non si fa», anziché – come si sente dire normalmente a una bambina che si rivolge a un adulto – «lascia stare, non disturbare». È in questa piccola sfumatura che cambia tutto: quel «non si fa» potrebbe essere «non si guarda», «non si esplora»; forse solo nel mio senso più valutativo, ma potrebbe essere così.
Se ora vi chiedessi: chi in questo aneddoto ha dei problemi con la disabilità, la bambina o la madre? Forse questa domanda potrà sembrare retorica, ma certamente tutti voi mi rispondereste: la madre. Ma qui la madre non ha colpa, ammesso che in questi casi si possa parlare di “colpa”. A mio avviso, non esistono colpe in questo mondo. E, tanto più, parlando di pedagogia ed educazione: tutti nasciamo da una cultura che ci portiamo dietro, volente o nolente, e siamo suoi figli o figliastri.
Ritornando a noi, nessuno ha educato quella madre a una rappresentazione ludica, nessuno le ha insegnato che si può anche giocare con una carrozzina, e persino con chi vive su una carrozzina.
Ecco un aspetto di quella che io chiamo una “nuova pedagogia”, ovvero una nuova educazione alla disabilità, che comprenda insegnare ai bambini la relazione con essa e con il “diverso”, e quindi, soprattutto, anche con il “non-io”. Perché è il “non-io” che apre nuovi orizzonti rivolti a quella educazione.
La diversità non è solo sinonimo di disabilità, ma è “l’altro, è tutto quello che io non sono”. Io, infatti, “sono tutto quello che l’altro non è”, e sono tutto ciò che rappresento nell’altro; e l’altro è tutto ciò che può rappresentare in me.
Quella bambina stava tentando di entrare in relazione con un oggetto, i tasti della mia carrozzina, e in un secondo tempo, forse anche con me; ma la reazione della madre interrompe il tentativo di farle esplorare nuove esperienze. La madre non vede neanche la persona che sta sulla carrozzina, perchè se l’avesse vista avrebbe detto qualcosa come «lascia stare non dare fastidio» oppure «non disturbare il signore», e non solo… «non si fa». Ma che cosa “non si fa”? Non si attraversa con il rosso, o non si parla con la bocca piena. Forse quella donna non avrebbe mai usato questa frase, se fosse stata aiutata, educata a rapportarsi con quel “non-io”.
Partiamo da qui, da questa piccola storia appena raccontata, per analizzare una macrostoria sociologica.
Ma di cosa vogliamo parlare, se siamo ancora fermi alla “preistoria” delle relazioni con il “diverso”, con il “non-io”; se ancora oggi la cultura della disabilità è rappresentata da una Legge come quella sul cosiddetto “Dopo di Noi” [Legge 112/16, N.d.R.], approvata dal Parlamente il 14 giugno scorso, che a parere di chi scrive, discrimina proprio la persona con disabilità. Di essa ha scritto così Paolo Emanuel Hannan Caponi in un suo intervento: «Non posso tacere i miei sentimenti di rabbia, davanti a tanta crudeltà».
Ci sono poi vicende da conoscere, come quella di “Cico33” in vacanza con i figli a Roseto degli Abruzzi – di cui si è parlato ampiamente anche su queste pagine – o come quell’idea nata da tre madri inglesi (#ToyLikeMe), per rispondere ai bisogni dei loro figli e di tutti i bimbi disabili. Il loro progetto prevede di realizzare bambole che rappresentino la realtà dei bambini con disabilità. E ancora, in Nuova Zelanda, dove il padre di un bambino con sindrome di Down è stato messo di fronte ad un ultimatum dalla propria compagna: o me o lui! Nessun genitore dovrebbe mai sentirsi dire queste parole. E infine, lo scorso 10 agosto, una ragazza con disabilità veniva trasportata con urgenza in ambulanza al Policlinico Umberto I di Roma per un’emorragia, accompagnata da una delle operatrici della casa famiglia. Al momento di fare un prelievo di sangue, l’infermiera sul posto avrebbe detto: «Ma perché questa stamattina è dovuta venire proprio qui?».
Dopo tutte queste storie e altre e altre ancora che potrei elencare, cosa c’è più da dire? Che non serve farci investire da un vortice di pessimismo cosmico leopardiano e dire tutto è inutile… non ci credo…
Ma per fortuna c’è anche il rovescio della medaglia. Come la storia della signora Plazzer, e la sua battaglia per la figlia Lara, esclusa dalla foto di classe perché disabile. Oppure il caso di quella mamma costretta a ricorrere ad un esposto ai carabinieri, per fare in modo che il figlio, durante le ore di lezioni scolastiche, fosse pulito lavato e curato come tutti gli altri.
E quindi, ciò in cui voglio davvero credere è che attraverso questa nuova pedagogia ogni cosa possa cambiare. Partendo da questo nuovo pensiero sociologico, partendo da chi ha il coraggio di lottare, come quelle due madri e come tante altre persone, può nascere proprio quella “nuova pedagogia”.
La mia razionalità mi porta ad affrontare come prima cosa i bisogni primari, pensando, ad esempio, a tutti quei ragazzi e ragazze con disabilità che sono segregati in casa perché vivono in un secondo o terzo piano senza ascensore, o perché non hanno i coetanei che li portano fuori; e i pochi che si vedono in giro spesso sono accompagnati dai genitori.
Detto questo, penso che solo in un secondo tempo si possa affrontare un tema come quello dell’“assistenza sessuale” alle persone con disabilità. Occorre prima intrecciare un fresco tessuto sociologico dove quella “nuova pedagogia” possa creare un incontro sentimentale, un’affinità che possa sfociare con naturalezza nella sessualità, come avevo già affermo in un mio precedente articolo su queste stesse pagine.
Ma serve conoscere bene le realtà delle situazioni di ogni disabile. Una “nuova pedagogia” inizia a monte, ovvero proprio dal disabile: uscire con lui per un incontro, ad esempio, significa avere presente in che cosa consista: aiutarlo a salire in auto e in carrozzina, e in tante altre sue mansioni. Questo, però, non si riflette solo sul disabile, si elidono tutti i bisogni primari e affettivi di ogni persona. Se analizzassimo molto bene il comportamento umano, ci renderemmo conto che l’uomo ignora anche le esigenze degli altri, senza entrare in empatia. Non si ferma più a quello sguardo e alla relazione, ma solo alla parte superficiale del rapporto con l’altro.
Se avessimo dunque lasciato giocare quella bimba col joystick, probabilmente l’avremmo già educata a rapportarsi con la persona disabile sulla carrozzina, perché l’avrebbe vista, sentita e toccata. È da qui che dovrebbe partire questa “nuova pedagogia”. Una pedagogia che parte e si sviluppa dal bambino, creandosi dal bambino stesso, con la sua spontaneità di saper incontrare quel “non-io”.
Ricordo a tal proposito quando fui chiamato dagli insegnanti per condurre un laboratorio all’interno di una classe dov’era presente un bambino con disabilità in carrozzina; l’intento era quello di aiutare il gruppo classe a integrarvi quel bimbo. Una volta entrato in classe, la prima cosa che feci fu di chiamare tutti gli alunni intorno alla mia carrozzina, per far loro contare i raggi. Non mi interessava, però, la somma dei raggi, come ben si potrà capire, ma volevo iniziare a far toccare e giocare quei bambini con una carrozzina, per arrivare a farli contare i bottoni della mia camicia. Da una carrozzina si passa a un corpo, e da un corpo a una relazione; e quei bimbi alla fine mi chiesero se potevano contare anche i raggi del loro compagno.
È questa una delle formule di quella “nuova pedagogia”, forse anche una “neo paideia psichica”, platonica. Mi piace sognare che forse dopo tanti anni, qualcuno di quella classe sia diventato amico o amica di quel bambino. È qui che si pone la relazione, esplorare la disabilità per farla propria.
Partiamo da qui per educare la società, ma non basta educare solo il “normodotato”, occorre infatti educare anche la persona con disabilità a non fare più l’“handicappato”. Il disabile deve avere coscienza e consapevolezza della propria disabilità, del proprio essere persona, del proprio essere individuo senza compiangersi e senza fare la vittima, perché è giunto il momento in cui egli stesso, proprio lui, diventi il “Virgilio della situazione”, e conduca questa società a una nuova visione della disabilità. Non parlo più di sofferenza, perché nella disabilità non c’è e non ci può essere la parola “sofferenza”, perché ogni essere umano vive e ha la propria.
Come dico sempre, il mio problema non è essere disabile, ma quello di capire come vivere la vita in sé. È questo l’enigma dell’essere umano, e quindi è il problema di ognuno di noi.