Milano: A una settimana dalla prima campanella ancora disagi («Milano OnLine»); Palermo: Sostegno nelle scuole tremila alunni in attesa degli insegnanti (in «la Repubblica»); Rosignano: Orario ridotto per uno studente autistico, la mamma: “Mio figlio a scuola solo 2 ore” («Il Tirreno»); In provincia di Cagliari 1.200 alunni senza insegnante di sostegno («La Nuova Sardegna»); Lucca: Caos sostegno, genitori sul piede di guerra («Il Tirreno»): sono solo alcuni titoli apparsi nei giorni scorsi sui quotidiani a denuncia del disagio vissuto da alunni e genitori, in questo travagliato inizio di anno scolastico.
Prima accusata, la Legge 107/15 (Buona Scuola), dimenticando però che se è vero che le difficoltà nell’avvio dell’anno scolastico sono state acuite quest’anno dall’intrecciarsi tra il nuovo e il vecchio sistema di mobilità del personale – con riferimento in particolare ai vincitori del cosiddetto “Concorsone” – va anche ricordato che gli effetti sull’inclusione della stessa Legge 107 al momento non possono essere che nulli: le nuove norme, infatti, demandate a un Decreto Delegato, non sono ancora state emanate.
Quale organizzazione che tutela i diritti delle persone con disabilità, non vogliamo qui entrare ulteriormente nel merito di questo stato di cose, se non per dire che nei momenti di difficoltà, a pagare il prezzo più alto sono, ancora una volta, i più deboli. Al tempo stesso, però, ciò che sta accadendo nelle scuole rende evidente lo stato di “malessere” del nostro attuale modello di inclusione.
Ho già avuto modo di ricordare, anche su queste pagine, che la Legge 517 del 1977, dalla quale ha preso avvio in modo organico la normativa sull’integrazione scolastica, subordinava il lavoro del docente di sostegno alla riorganizzazione del “contesto”, prevedendo «attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse» e ancora «attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno, anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni».
Quanta distanza vi sia tra l’attuale modello – che vede nel docente di sostegno il “garante” dell’inclusione e al quale affida il suo successo – e il dettato di quella Legge – che subordinava il suo operare alla riorganizzazione del “contesto scuola” – credo sia evidente a tutti i Lettori. E quanto è successo in questo inizio di anno scolastico, come sopra richiamato, frutto di un vero e proprio “travisamento” dei princìpi fondanti di una corretta cultura dell’inclusione, giungendo fino ad impedire all’alunno con disabilità di entrare in classe in assenza del docente di sostegno, ha messo in evidenza le attuali contraddizioni del modo con il quale il processo di inclusione si è venuto realizzando e la pericolosa china sulla quale esso sta scivolando.
La contraddizione principale riguarda la normativa: nessuna norma, infatti, subordina l’accettazione in classe dell’alunno con disabilità alla presenza o meno del docente di sostegno, ma se ciò è grave, in quanto violazione di un diritto, la contraddizione ancora più grave è quella riferita ai princìpi pedagogico-didattici che stanno alla base della corretta cultura dell’inclusione, quando, impedendo all’alunno con disabilità di frequentare se manca il docente di sostegno, si legittima di fatto che ai docenti titolari non competa l’insegnamento a quell’alunno e che non siano loro i responsabili del suo apprendimento, quasi egli appartenesse a una scuola “altra”.
Scuola “altra” la cui esistenza sembra essere stata ipotizzata, quando, per l’inclusione degli alunni con disabilità o con bisogni educativi speciali (BES), anziché richiamare l’attenzione delle scuole sulla necessità di una progettazione della propria offerta formativa for all [“per tutti”, N.d.R.], con la formulazione di un PTOF inclusivo (Piano Triennale dell’Offerta Formativa), è stata richiesta la redazione di un documento diverso, il PAI (Piano Annuale per l’Inclusione), quasi che si trattasse di attività al di fuori del PTOF stesso.
Tutti segnali, questi, che indicano lo stato di “malessere” della nostra scuola nei confronti della scolarizzazione degli alunni con disabilità e la “distorsione” del nostro attuale modello di inclusione, focalizzato sul docente di sostegno, fuori da un contesto culturale nel quale ci si riconosca “tutti uguali, tutti diversi”, e sempre più lontano da quei princìpi di “uguaglianza di opportunità” della scuola “per tutti e per ciascuno”, della “progettazione for all”, che negli Anni Settanta aprirono a tutti la scuola di tutti.
Senza una scuola che, rifacendosi ai principi della Classificazione ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.], sappia riconoscere e valorizzare le potenzialità dell’alunno con disabilità e ne sviluppi il massimo di autonomia possibile, il nostro modello di inclusione è destinato a “implodere”. L’inclusione, infatti, non può che essere garantita dalla capacità del contesto – inteso come l’intera organizzazione della scuola – in cui l’alunno disabile viene inserito e nel quale il docente specializzato può svolgere appieno il proprio ruolo di sostegno, non al ragazzo, ma alla classe (prima), e all’intero istituto (poi), come del resto previsto dalla norma, contribuendo alla completa integrazione dello stesso alunno con disabilità.
Il docente di sostegno, invece, considerato referente unico e perno sul quale fondare l’inclusione, è stato progressivamente isolato dal contesto, contesto che – anziché organizzarsi per favorire lo sviluppo integrato dell’alunno con disabilità – è diventato sempre meno consapevole dei bisogni di quest’ultimo, deresponsabilizzandosi sempre più nei confronti delle sue necessità e relegandolo di fatto in attività didattiche isolate e parallele. E così, questo progressivo isolamento, com’era inevitabile, ha reso necessarie sempre più ore di presenza di figure di sostegno, mentre la qualità dell’inclusione non è migliorata, anzi, al contrario, è via via calata.
Questo modello di inclusione che fa del docente di sostegno il “garante” dell’inclusione è destinato dunque a far fallire il processo stesso di integrazione, perché l’inclusione ha alla base la relazione positiva con l’altro (compagni, docenti e personale tutto), in attività comuni in gruppo, e questo non lo può garantire il docente di sostegno, ma solo il livello di “inclusività dell’intera scuola.
Senza un contesto-scuola inclusivo, che favorisca rapporti positivi con i compagni, dove il docente titolare si occupi dell’alunno con disabilità, dove quest’ultimo partecipi alle iniziative scolastiche ed extrascolastiche con i compagni, dove i vari ambienti siano accessibili, così come i libri e i documenti, dove egli possa trovare gli strumenti e i sussidi che gli permettano di seguire in pari opportunità, o comunque secondo le sue possibilità, l’attività didattica, è ben difficile che si sviluppi un positivo processo di inclusione.
“Garante” dell’inclusione, quindi, non è e non può essere il docente di sostegno, ma un contesto che sappia accogliere in condizioni di pari opportunità l’alunno con disabilità e ne favorisca l’inclusione nelle diverse attività.
Ci si dirà che la scuola non ha gli strumenti per questo, ma se ciò poteva essere vero negli Anni Settanta, quando ebbe avvio l’inserimento degli alunni con disabilità, dal 2000 in poi l’autonomia didattica offre alle scuole la possibilità di riorganizzarsi in relazione ai bisogni dei diversi alunni. L’autonomia, infatti, consente oggi: “curvature” del curriculum fino al 20% dell’orario; l’insegnamento per gruppi di livello e per classi parallele; la didattica laboratoriale; l’alternanza scuola-lavoro; una modulazione dell’orario delle lezioni variabile nei diversi periodi dell’anno.
In sintesi, è possibile una progettazione didattica diversificata e flessibile, in modo tale da favorire un’offerta formativa per tutti e per ciascuno. E anche l’organico potenziato, se utilizzato in quest’ottica, rappresenta una risorsa che potrà fare la differenza pure per l’inclusione, purché si sia consapevoli che, per risalire la china e ridare nuovo slancio al processo di inclusione, occorre spostare il focus del processo dal docente di sostegno al “sostegno del contesto”, quale garante del successo formativo.
Referente per l’Istruzione della FAND Nazionale (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità).
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