Com’è ben noto, a Rio de Janeiro si sono svolte dal 7 al 18 settembre le Paralimpiadi 2016. Le cronache dei giornali hanno raccontato delle molte medaglie d’oro degli atleti italiani. Ricco anche il dibattito, sospeso tra toni trionfalistici e valutazioni più sfaccettate, su se e cosa le Paralimpiadi in TV abbiano cambiato dell’immagine della disabilità.
Il “corpo” della persona disabile è stato sotto i riflettori; corpi che realizzano prestazioni, carne viva, corpi in vigoroso movimento, corpi vincenti, corpi cui la tecnica (ortopedica) restituiva quello che il destino aveva rubato. Atleti, persone, per lo più con disabilità acquisite, quelle schierate nella prima fila dell’informazione; una normalità che ritorna come possibile.
Da sempre il corpo della persona con disabilità è uno dei centri – se non il centro – di ogni percezione della disabilità. Spesso percezioni taciute, a volte indicibili perché sospese tra estremi troppo totalizzanti: salute/malattia, vita/morte, attrazione/repulsione, solitudine/socialità.
Da Rio in poi – forse anche un po’ per la contemporaneità con la Conferenza Nazionale sulle Politiche della Disabilità di Firenze, seppure ignorata dai media – sulle pagine dei quotidiani è stata tutta un’escalation di attenzione al tema delle barriere, prima nelle pagine nazionali e poi in quelle locali là dove esistenti.
“La mia paralimpiade di ogni giorno”, è stato il filo conduttore del discorso. “Corpi in vigoroso movimento” che, una volta ritornati a casa, di punto in bianco non lo potevano più essere. Interminabili gallerie fotografiche con l’esercizio preferito dalla stampa: quello di dichiarare i “buoni”, le persone disabili, e i “cattivi”, nella duplice veste di killer, la barriera, e di mandante, il Comune che la barriera non elimina. Qualcuno ha messo in braccio a un papà disabile anche il suo bambino di pochi mesi, per rendere il “buono ancora più buono” e alle barriere nelle città si sono affiancati via via i temi dell’inaccessibilità dei bus e dei parchi gioco accessibili. Anche il Presidente della Repubblica nella eco di Rio ha toccato questi temi.
E se il corpo non può più correre – e, nel suo correre, esprimersi – non desta meraviglia che le due figure più evocate sulla stampa a corollario dell’“effetto Rio” siano stati il disability manager, che quasi sempre viene appiattito sul tema accessibilità, e l’assistente sessuale, che è sembrato riemergere dopo un periodo di silenzio mediatico.
Intendiamoci, i temi dell’accessibilità sono reali, scontano impreparazione e inesperienza dei tecnici delle amministrazioni, scarso raccordo sociale/edilizia/trasporti, maleducazione dei cittadini, a volte anche disattenzioni del tessuto complessivo della rappresentanza della disabilità. Sono un fattore escludente e discriminatorio. Rubano vita. Lo so bene, occupandomene anche per lavoro, avendo una formazione in materia sociosanitaria e tecnica e avendo coordinato sia un’autoscuola per disabili, sia, per anni, un servizio pubblico che si occupa di adattare le case delle persone non autosufficienti.
Ma il fatto che ogni volta che nella società si spande un’eco della disabilità in termini giudicati positivi, la risposta di questa, per il tramite dei media, sia «abbattiamo le barriere», è un po’ poco. Dopo ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] e Convenzione ONU è un po’ poco. Soprattutto se poi si dovessero percorrere strade di delega a una “figura salvifica”, a discapito di un coinvolgimento di attori più complessivo e articolato e se si applicassero le logiche dell’accessibilità (che sono anche inevitabilmente di tipo tecnico efficientistico) a tutto, come la maldestra proposta di affrontare con le telecamere di sorveglianza il tema degli episodi di violenza e maltrattamento nelle strutture sociosanitarie, senza spendere una riga su chi sono gli operatori, da dove vengono, che formazione e consulenza hanno, quali il contesto e le condizioni del loro lavoro, quali i “destini” che hanno portato lì le persone con disabilità che risiedono e/o frequentano quelle strutture e che permettono, agli operatori violenti, di servirsene come specchio di se stessi.
Sembra insomma di vedere una società e un mondo del giornalismo che nel momento in cui dichiarano di avvicinarsi alla disabilità e di avvicinare società e disabilità, mettono spesso in atto meccanismi che nel medio/lungo periodo ottengono il risultato opposto, aiutati – bisogna dirlo – anche da una certa distrazione di parte del tessuto associativo, dovuta a molteplici fattori (dinamiche del Terzo Settore, mutamento del modello associativo, cultura del diversamente abile ecc.).
“Abbattiamo le barriere” è un po’ poco non di per se stesso, ma perché l’evidenza delle barriere, lo scontato del rapporto tra carrozzina e scalinata, finiscono per essere una luce che mette in ombra il resto, ovvero la vita della persona con disabilità, prima di arrivare a quella scalinata e dopo quella scalinata.
L’informazione è sempre più online, carta e web sempre più interdipendenti. Le barriere – come le attrici – si prestano benissimo a comporre lunghe gallerie fotografiche che una volta erano complemento di articoli, mentre oggi (un po’ come per i dati) avviene sempre più il contrario ed è l’articolo ad essere un accessorio della galleria, nell’illusione (o nell’inganno) che l’immagine basti, anche a se stessa.
Ma nemmeno il povero bambino siriano affogato nell’Egeo è bastato a se stesso.
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