Lunedì.
Arriviamo all’albergo della nostra vacanza [Corte Rosada di Porto Conte di Alghero, in provincia di Sassari, N.d.R.] all’ora di pranzo. Il primo problema da affrontare è il pasto a buffet, ma siamo fortunati, nel menù ci sono la pasta in bianco e la bistecca.
Anche se ormai Antonio ha un’alimentazione variegata, non mi posso permettere di andare oltre quello a cui è abituato. Non ci deve essere prezzemolo, la carne e il pesce devono essere arrosto o fritti, come è abituato a vederli (ha una memoria visiva eccezionale!); il brodo va bene ma dev’essere colato prima di versarci la pastina ecc. ecc.
Secondo problema: come avrebbe reagito il personale dell’albergo, visto che al momento della prenotazione, per paura di un rifiuto, non ho detto di avere un figlio con disabilità?
E ancora il riflesso di Antonio negli occhi degli ospiti dell’hotel. Siamo abituati ad anticipare i passi che deve compiere, ma ormai è grande e a volte ho paura di non riuscire più a precederlo, per evitare che i suoi atteggiamenti possano infastidire gli altri. Non mi resta che sfidare le paure della gente, e scrutare le loro espressioni, mentre “squadrano” il mio Antonio nei suoi comportamenti “bizzarri”.
Nel pomeriggio, mentre mio marito Gianmarco fa fare un giro di ricognizione ad Antonio intorno all’albergo, io mi allungo nella spiaggina al bordo della piscina, in compagnia di Eleonora, mia figlia di 9 anni e mezzo) che, come al solito, smania per poter socializzare con gli altri bambini.
Al rientro ci prepariamo per la cena. Ma per Antonio, oltre alla pasta in bianco, non c’è un secondo di suo gradimento: orate al forno, ma con sopra i pomodori, spiedini di carne, calamari con le fave.
Al termine, quando stiamo per alzarci, la cameriera, che si è resa conto della diversità di Antonio, chiede se tutto è andato bene, se abbiamo bisogno di qualcosa. «Avremmo bisogno di poter contare su un menù leggermente diverso», chiarisco, «per il nostro ragazzo, che è affetto da autismo». «Ci mancherebbe!», esclama, e mi affretto a farle l’elenco. «Allora per domani a pranzo gli facciamo la carne fritta e a cena la carne ai ferri?», suggerisce. «Perfetto!», concludo soddisfatta, per un comportamento in cui ho colto l’umana disponibilità.
Usciti all’aperto, come avevamo anticipato ad Antonio, passeggiata a guardare la luna, le stelle e lungo il pontile. Alle ventuno: «Sono stanco. Andare a letto!».
Martedì.
Come al solito ci svegliamo alle sette e trenta. Differenza di un’ora dal periodo invernale. «In ristorante, la carne fritta!»: Antonio è allegro. Gli ricordo che la può mangiare per pranzo. Ora è tempo di fare colazione. Gli porto i suoi biscotti, i “tarallucci” (sono i suoi preferiti da qualche anno. Prima erano i “galletti”. E anche questo per noi è un progresso, riuscire a fargli cambiare le scelte; anche se, una volta che troviamo l’alimento che gli piace, dopo un po’ viene cambiata l’etichetta. Le ricerche di mercato non considerano gli autistici, che associano l’etichetta al poco cibo che riescono a mangiare!).
Antonio consuma i pasti in un tempo brevissimo. Anche qui lo assecondiamo, ma vogliamo approfittare di questa vacanza per limare i suoi comportamenti. «Alzare babbo! Andiamo in camera»: il suo tono è acuto, mentre agita i suoi pupazzi e si muove fra i tavoli, in attesa che il padre si alzi. Non percepisce le regole, le conosce in maniera meccanica. Abbraccia il padre per fargli fretta. Gli basta poco per innervosirsi: stringe più forte il padre e lo scuote. Io osservo gli altri ospiti seduti vicino a noi, mi basta un attimo, uno sguardo digitale, veloce e preciso: hanno notato, ma simulano con un’assenza di espressione.
Antonio torna in camera. Guarda i DVD che ha portato da casa, o dal portatile si collega a internet per guardare i cartoni animati. Ne ha bisogno. In questi momenti rientra nel suo mondo, si riprende dalla fatica di stare nella nostra realtà. Ma questo è anche il modo di imparare il linguaggio, con le nuove espressioni che ripropone a noi.
Non lo lasciamo a lungo, diventerebbe difficile riportarlo alla realtà. Mio marito ormai è diventato la sua ombra. A casa Antonio lo chiama quando gli serve un aiuto: «Baaabbooo… vieni ad aiutare! Antonio rotto il computer!». Hanno formato una bella amicizia (una delle conquiste che i genitori dei ragazzi normodotati ci possono invidiare!), io ne sono orgogliosa, ma anche gelosa. Non c’è più il mio bambino, ma un bellissimo ragazzo. Per amore, ho ceduto il passo!
Nel pomeriggio Eleonora ed io ci stendiamo a bordo piscina, Antonio e il padre girano per la pineta dell’albergo, e fanno capolino ogni tanto. «Alle diciotto vieni tu e stai con Ele, così ti fai anche un bagno. Io vado in camera con Anto. Così si rilassa e guarda un poco i DVD». Ma per Antonio inizia l’insofferenza: «Mamma… mancano quattro giorni e poooi torniamo a casa!». «Sììì, non ti preoccupare. Sabato dopo colazione torniamo a casa!».
Mercoledì.
Alle dieci e mezza Antonio gira intorno alla piscina con i suoi pupazzi parlando da solo. È nervoso. Per calmarlo mio marito lo porta al secondo piano dell’albergo dove c’è un biliardo.
Si è svegliato alle cinque. C’era da immaginarselo, dopo due giorni è la sua reazione all’adattamento. Quando ci siamo svegliati tutti, alle sette e mezza, voleva chiudere le tende delle finestre. Urlava: «A mangiare in ristorante!»; e ha continuato a ripeterlo fino alle undici e mezza…
Mio marito è di cattivo umore, conosco i sintomi. «Ancora non siamo riusciti a stare insieme neanche in piscina!», mi confessa. «Ma cosa ti aspettavi? È tanto essere riusciti a venire qui! Vedrai che in un anno di terapia migliorerà, e l’anno prossimo saremo più autonomi. Ma tu, per caso, vedi qualche altra famiglia con un disabile?». «No!». «E allora? Non ti sembra già tanto quello che stiamo facendo?».
Quando torniamo in camera per prepararci al pranzo, ricordo a Eleonora come deve comportarsi nei momenti di tensione di Antonio: «Devi collaborare; se Antonio persiste nel suo malessere, saremo costretti ad andarcene!».
Eleonora, che come dicevo ha 9 anni e mezzo, ha già dato un aiuto fondamentale per la crescita di Antonio. Incuriosita dal fratello fin da piccola, faceva di tutto per sentirlo e vederlo meglio. Col tempo fu naturale per lei trasformarsi nella sua “ombra”, consigliandolo qualsiasi cosa facesse, ponendogli quesiti di cui pretendeva la soluzione immediata. Fu abile nell’insegnargli il senso del “fare squadra” e, impartiti i rudimenti del gioco, nel momento in cui combinavano qualche monelleria, lo prendeva per mano dicendo: «Dai Antonio, fuggiamo!». E se incorreva in una punizione, tentava di opporsi: «Povverrino! Lascialo stare!». Nelle fotografie che custodiamo ricorrono molte immagini di Eleonora che, per quanto molto più piccola, lo abbraccia e lo tiene per mano.
Non sono ancora le tredici. Antonio è troppo nervoso per aspettare, si dirige verso la sala seguito da mio marito; vuole sorpassare la fila di anziani che attendono di poter entrare. Uno di loro gli rivolge la parola. Prevedo la litigata. Gianmarco gli si affianca subito. Antonio apre la porta per chiuderla un secondo dopo e allontanarsi dalla fila. Mio marito rivolge una parola a quell’anziano e quando mi preparo al peggio, ecco che le due ante della sala si aprono. Antonio, che è già arrivato all’ingresso della hall, se ne accorge: gli basta un attimo per raggiungerci, superarci e sedersi a tavola.
Per poter mangiare tutti insieme, senza fare aspettare Antonio ed evitare le sue urla, ci siamo organizzati: Eleonora pensa agli antipasti, io e mio marito ai primi e ai secondi. L’importante è che Antonio non aspetti. Per fortuna, ormai tutti i camerieri sono informati. L’ho scoperto quando uno di loro ci ha chiesto se doveva portare subito la pasta in bianco. «Grazie, ci pensiamo noi», ha risposto Gianmarco piacevolmente colpito.
Al ritorno in camera chiedo a mio marito che cosa ha detto il signore anziano in fila per il pasto: «Lo lasci entrare, così fanno entrare anche noi! È giovane e ha fame!»; non certo quello che avevo immaginato!
Seduta nel piccolo patio esterno alla stanza, osservo Eleonora che gioca nel parco giochi di fronte. Mio marito fa un riposino, mentre Antonio guarda il suo DVD, con la raccomandazione: «Solo mezz’ora, se no ti fa male!».
Al risveglio mio marito porta il caffè e gli chiedo un po’ di tempo per collegarmi a internet: «Ho deciso di raccontare questa esperienza, anche per far conoscere il merito di queste persone».
Giovedì.
È nuvoloso, da stamane. Sono le sedici e scrivo in tempo reale. Mio marito mi asseconda, come sempre, quando condivide un mio obiettivo.
Stamattina l’umore di Antonio è migliorato e anche quello di Gianmarco. Ci siamo svegliati alla solita ora, ma i “ragazzi” hanno impiegato più tempo per alzarsi. A colazione ognuno dei tre ha collaborato portando qualcosa, prima fra tutte la tazza di latte per Antonio. Al ritorno dal viaggio per prendere il caffè noto che Antonio si gira sulla sedia e si tocca il sedere con la faccia preoccupata. Poi mi mostra la mano e con fare sorpreso dice: «Fatta puzzetta… è uscita la cacca!»… Per un secondo resto impietrita, poi, preso un tovagliolo (per fortuna sono di carta!), gli pulisco le dita e un altro glielo metto dentro le mutande.
Il mio sguardo non si ferma, osservo e zummo: ci sono solo due coppie vicino a noi in quel momento. Una di mezza età, solo lei se ne accorge. Si irrigidisce, ma solo un istante. C’è da capirla! Poi continua a mangiare. Gli altri sono sposini, lo si intuisce dalle fedi lucide. Lei se ne accorge, ma non alza lo sguardo; i lineamenti sono contratti e lo sguardo è fisso in quello che fa.
Mio marito è di ritorno dal viaggio per il caffè, ma non fa in tempo a berlo: «Porta Antonio a cambiarsi… Sta male!». Continuo la mia osservazione. Sarà breve, io ed Ele abbiamo quasi finito. Ma ho intenzione di “sfidare il mondo”, provando anche un certo perverso piacere. «È incredibile… una ragazza giovane… sposina… Speriamo che la vita non la metta in condizioni di doversi liberare di quella rigidità!». «Cosa stai dicendo mamma?», chiede Ele. «Niente… Stavo facendo solo una considerazione sui fatti della vita. Dai Ele… andiamo!».
Raggiungiamo i “ragazzi” in camera. Ci mettiamo d’accordo sul da farsi. Gianmarco fa fare un giro ad Antonio ed io, seduta nel patio, guardo Ele che si dondola nel parco giochi. Dopo tre quarti d’ora inizia a piovere, ci ritroviamo in camera. Eleonora si allunga nel letto per guardare la televisione e Antonio si mette al computer.
Sono le sedici. Antonio è collegato al canale televisivo Disney Junior e usa un gioco interattivo. Mi sveglia il rumore: «È esatto! È esatto! È esatto!». Gli ricordo le regole. Non discute. Raggiunge la sorella.
Inizio a scrivere. Dopo un po’ mio marito ed Eleonora vanno a fare un giro; il cielo inizia a rischiararsi. Antonio entra in camera e mi mostra quello che penso di conoscere: «Hai fatto un gatto?». «No, il topo con il mantello!»; e facendolo svolazzare aggiunge entusiasta: «Gli mancano gli stivali!».
Continuo a scrivere. La pioggia e Gianmarco mi hanno concesso parecchio tempo, ma non dimentico il “Supertopo”.
Venerdì.
Sono le quindici e trenta. Riprendo a scrivere. Mio marito è ancora nel letto alle mie spalle. Antonio ed Ele sono nella loro camera; lei guarda la televisione, mentre Antonio, dopo avere usato per mezz’ora il computer, ha accettato di andare a riposare senza brontolare.
Ripenso a quanto ci siamo detti poco fa, abbracciati nel letto – una cosa che diventa ogni giorno più rara -, ripercorrendo queste ultime ore di vacanza. È sereno fin da stamattina, segno che si è adattato al nuovo ambiente e alle nuove regole; non solo quelle dettate da noi, ma anche quelle stabilite da lui: non fa il bagno al mare né in piscina; preferisce andare al parco giochi e soprattutto visitare la pineta – di giorno ma meglio di notte – con la torcia per scovare le crisalidi; e raggiungere spiaggia e pontile, di notte e di giorno, sempre insieme al padre, tirandolo per un braccio.
Oggi ha consumato il pranzo con più lentezza, tanto da farlo gustare anche a noi. Per questo quando si è avvicinata la cameriera le ho detto: «Per questa sera faccia preparare minestra e carne ai ferri».
Alle diciannove, quando il cielo si è totalmente rischiarato, ci prepariamo per la cena, ignari del “dramma” che sta per lambirci. Antonio si siede a tavola, mentre noi facciamo la fila per portargli subito la pasta in bianco. La cameriera mi chiede se è il caso di preparargli subito la carne: «Sì è meglio, così finita la pasta non aspetta molto».
Sono contenta di queste attenzioni. Ma quando ce le porta, le due fettine sono ricoperte di prezzemolo tritato! Antonio si porta le mani alla testa e, spalancando gli occhi, si prepara a mettere la lingua fra i denti. Ho paura che si metta a urlare. Prendo una fettina e inizio a pulirla con un pezzo di pane. Mio marito osserva, mentre la cameriera, resasi conto che qualcosa non va, mi accosta un piatto pulito dove riporla. Restituiamo velocissimamente ad Antonio le fettine “nuove di zecca” e lui le gusta con molta calma, mentre noi, sopravvissuti, lo osserviamo inebetiti.
Sabato.
Siamo tornati a casa. Sono le sedici e riprendo a scrivere. Antonio è nella sua camera impegnato nei giochi di Disney Junior. Mi raggiunge mio marito: «Hai finito?». È curioso di sapere a che punto sono. Ma io sono bloccata, guardo questa mezza pagina, troppo bianca: «Non so come concludere…». Il blocco dello scrittore? No, una mamma che ha in testa le centomila cose da sistemare dopo cinque giorni di vacanza: l’ingresso da ripulire dalle foglie; il bagno da fare a Rosy (la nostra cagnolina sopravvissuta dopo essere finita sotto i piedi di Antonio; ma, come ha detto mio marito quando l’ha portata a curare: «In una famiglia con disabilità, anche il cane non poteva essere senza handicap!…»); le altre due lavatrici che ancora devo fare…
«Ho troppe cose per la testa…. Ma devo dare una conclusione a quanto abbiamo vissuto!». Gli chiedo un aiuto. «Ti ricordi quando eravamo alla piscina… – suggerisce – mercoledì mattina? Ho lasciato Antonio in camera, era abbastanza tranquillo, e io ti ho raggiunto. Anche tu eri rilassata: “La stanza è qui di fronte”, hai detto, “e poi dobbiamo lasciargli più autonomia”». «Sì, ora ricordo. Ci sentivamo strani, così vicini l’uno all’altra, guardando Ele che si divertiva con le altre bambine, tranquilli per Antonio: “una famiglia fra le tante”. Così il mio sguardo si è potuto perdere all’orizzonte, sulle acque di Porto Conte, mentre commentavo: “Il mare è piatto!”. Poi, lo sguardo si è rianimato e guardandomi attorno mi mancava la presenza di Antonio, seppur breve, di quando si avvicinava per dirmi “in stanza al computer!”, di ritorno dalla sua passeggiata al boschetto o al parco giochi»…
«Non è così che lo voglio vedere in vacanza! Le strutture ricettive si dovrebbero adoperare per fornire un pacchetto di servizi in cui assicurare alle persone con disabilità partecipazione attiva ed integrazione, al di fuori del tempo che potrebbero passare con la loro famiglia». Ecco, vorrei dire questo… Se troverò qualcuno che abbia la volontà di ascoltare!