Quando l’inclusione va in scena, cadono gli stereotipi

di Stefania Delendati
Tra le diverse forme di arteterapia, la teatroterapia si è imposta come strumento versatile di educazione, riabilitazione e integrazione che, portando in scena i vissuti personali e sfruttando le potenzialità del “gioco delle parti”, caratteristiche dell’arte dell’attore, sostiene processi di benessere e cambiamento, facendo molto spesso cadere stereotipi e pregiudizi. Andiamo a conoscerne un paio di buoni esempi, come quelli delle Associazioni emiliane Fuori di Teatro e TraAttori, per le quali “inclusione” e “improvvisazione” sono tra le principali “parole chiave”
Aristotele
«Il teatro – sosteneva il filosofo Aristotele – esercita sull’uomo una sorta di liberazione, un sollievo dalle paure quotidiane che permette un’osservazione più consapevole della proprio io e di quello che ci circonda»

Lo pensava anche Aristotele: il teatro esercita sull’uomo una sorta di liberazione, un sollievo dalle paure quotidiane che permette un’osservazione più consapevole della proprio io e di quello che ci circonda. Non per niente è stato il filosofo greco ad introdurre il concetto di catarsi, che significa, appunto, “purificare”. Ormai è assodato che le attività creative in genere hanno una funzione risanatrice che mette in campo parti di sé nascoste e fanno emergere risorse insospettabili.
Tra le diverse forme di arteterapia, la teatroterapia si è imposta come strumento versatile di educazione, riabilitazione e integrazione che, portando in scena i vissuti personali e sfruttando le potenzialità del “gioco delle parti”, caratteristiche dell’arte dell’attore, sostiene processi di benessere e cambiamento.
Il precursore è stato il marchese de Sade, noto per i costumi dissoluti, che all’inizio dell’Ottocento, rinchiuso nel manicomio di Charenton in quanto considerato socialmente pericoloso, scriveva e allestiva spettacoli interpretati dai pazienti.
Pressappoco nello stesso periodo, l’abate Giovanni Maria Linguiti sperimentava nell’Ospedale di Aversa (Caserta) una “cura morale” nella quale le rappresentazioni teatrali avevano un ruolo predominante. Alla base della sua teoria, far interpretare a un malato-attore un personaggio che avesse un’”ossessione” opposta a quella di cui soffriva.
Il successore di Linguiti, Biagio Gioacchino Miraglia, ha portato i pazienti a recitare fuori dal nosocomio, nel Teatro del Fondo, l’attuale Teatro Mercadante di Napoli. Sono divenuti famosi come “i folli del dottor Miraglia”, così come li aveva definiti in un articolo del 1863 lo scrittore Alexandre Dumas padre, e il loro lavoro sul palco aveva una più ampia finalità sociale perché guardandoli lo spettatore superava gli stereotipi verso la malattia mentale, concetto, questo, che è tuttora di grande attualità. Allora come oggi, infatti, nella finzione scenica non solo gli attori allenano risposte psicofisiche adattative ed efficienti, ma il pubblico è coinvolto e stimolato a prendersi maggiormente carico delle situazioni di disagio presenti nella società.

Dopo Sade, è stato un altro personaggio eccentrico a inaugurare una nuova stagione. All’inizio del Novecento, infatti, in un parco alla periferia di Vienna, lo psicoterapeuta Jacob Levi Moreno ha avviato un laboratorio teatrale con ragazzini “difficili”. Ben presto gli attori in erba hanno formato una compagnia che metteva in scena storie ispirate alla vita quotidiana. Il successo dell’esperimento si è ripetuto quindi con un gruppo di prostitute di un ghetto viennese, per le quali recitare insieme funzionava da terapia per uscire dal disagio.
Moreno è stato l’ideatore dello psicodramma, una psicoterapia di gruppo in cui, seguendo una trama generica fornita dal terapeuta, ogni persona rappresenta le proprie vicende interiori. La presenza di un canovaccio annulla la sensazione di imbarazzo e questo facilita l’esternazione delle angosce e delle emozioni più profonde, aiutando il paziente ad approfondire i conflitti e a prenderne coscienza.

Robert J. Landy
Robert J. Landy avviò nei primi Anni Sessanta le sue prime esperienze con la drammaterapia

L’autentico incontro fra teatro e psicologia avviene però negli Anni Sessanta, con la nascita dei laboratori teatrali dove attori e regista lavorano insieme. Il teatro esce dai cliché accademici e “colonizza” in maniera permanente spazi inconsueti, dove fino ad allora aveva abitato la marginalità. Carceri, ospedali psichiatrici, case di riposo, centri per persone con disabilità, luoghi di aggregazione giovanile, comunità per tossicodipendenti si trasformano in palcoscenici, e la teatroterapia – che in origine era un’attività teatrale del tutto tradizionale – con l’andar del tempo si apre alla spontaneità e all’improvvisazione tipiche dello psicodramma (Moreno docet).
Risalgono ai primi Anni Sessanta anche le esperienze iniziali di Robert J. Landy con la drammaterapia, un approccio nel quale il ruolo e l’attore prendono le distanze, la persona non è il personaggio che sta interpretando, ma avvicina le sue esperienze alla performance.
Secondo la definizione della British Association for Dramatherapists (1979), «la drammaterapia aiuta a comprendere e alleviare i problemi sociali e psicologici, inclusi le malattie mentali e l’handicap; facilita l’espressione simbolica attraverso la quale l’individuo (sia da solo che in gruppo) entra in contatto con se stesso, per mezzo di attività creative strutturate che coinvolgono la comunicazione verbale e fisica».
Qualunque sia l’orientamento prescelto, le potenzialità della recitazione sono ampiamente sperimentate e hanno dato ottimi risultati sul fronte preventivo ed educativo, in presenza di difficoltà relazionali e a scopo riabilitativo, quando si renda necessario “ricostruire” un’identità propria dopo un evento traumatico, sia fisico che psicologico, oppure nel caso di disabilità.

L’interesse crescente registrato negli ultimi anni è sfociato nella realizzazione di laboratori nati dalla volontà di associazioni non-profit e servizi territoriali. È il caso, ad esempio, dei Fuori di Teatro, Associazione di Volontariato fondata nel 2006 a Fidenza (Parma), che sostiene l’autonomia delle persone con disabilità e con malattie mentali, diffondendo nel contempo una cultura di inclusione sociale. Queste finalità vengono perseguite mediante la realizzazione di spettacoli concepiti e portati in scena dai pazienti seguiti dal Servizio Sociale, dal Centro di Salute Mentale e dal Servizio per le Tossicodipendenze del Distretto Sanitario di Fidenza, coadiuvati da operatori e volontari. L’Associazione si fa portavoce di un processo di partecipazione dell’opinione pubblica, perché diventi patrimonio comune la consapevolezza che ogni individuo è portatore di capacità e rappresenta un’importante risorsa.
A parlarcene è Roberta Panizza, educatrice professionale del Centro di Salute Mentale di Fidenza e responsabile dei Fuori di Teatro.

Fuori di Teatro
I Fuori di Teatro al termine di una loro rappresentazione

Quest’anno festeggiate dieci anni di attività teatrale nell’ambito della disabilità e del disagio mentale. Pensa che in questo lasso di tempo sia cresciuta la consapevolezza dell’opinione pubblica riguardo i disabili?
«Sicuramente sì, anche se ritengo importante che si passi da una maggior consapevolezza a un’assunzione di responsabilità. Una persona che esprime un disagio non dev’essere solo a carico dei servizi competenti, ma dell’intero contesto in cui vive; il territorio deve farsi carico del disagio che produce; credo che solo così ci possa essere un percorso di reale integrazione».

Qual è stata la molla che ha fatto scattare l’idea di creare una realtà come i Fuori di Teatro? All’inizio è stato necessario seguire corsi di formazione particolari?
«L’Associazione è nata dal laboratorio teatrale, allora condotto da operatori della Cooperativa Giolli (Teatro dell’Oppresso), che usa come strumento il teatro creato dal regista brasiliano Augusto Boal. Il costituirci in Associazione è stata un’esigenza dei Servizi, giacché questo ci ha permesso di interfacciarci con il territorio in una veste meno connotata, di accedere ad alcuni fondi, di collaborare e condividere progetti sul territorio con altre Associazioni di volontariato. Come volontari abbiamo partecipato ad alcune formazioni promosse dal Forum Solidarietà di Parma».

Attualmente quanti volontari sono impegnati nell’Associazione e quante persone con disabilità partecipano ai vostri laboratori?
«Sette volontari, tredici/quattordici utenti, tre operatori dell’AUSL (SERT-Servizio Recupero Tossicodipendenze, CSM-Centro Salute Mentale, Servizio Sociale-Area Disabili)».

Nel concreto, cosa prevede un laboratorio teatrale? Seguite un copione prestabilito oppure vi affidate all’improvvisazione?
«Un laboratorio prevede una fase di riscaldamento (lavoro sul corpo, sulla voce, sull’ascolto e l’empatia, sulla relazione e la conoscenza tra i partecipanti) ed esercizi di improvvisazione. Non c’ è un copione scritto, c’è comunque una cornice, una struttura entro la quale si improvvisa».

Nei partecipanti quali cambiamenti ha notato a livello di autonomia?
«Quello che maggiormente emerge è una maggiore sicurezza in sé, fiducia nelle relazioni e questo chiaramente ha delle ricadute nella vita quotidiana e nelle autonomie di ognuno. Ci tengo però a precisare che l’esperienza teatrale si inserisce in un progetto di cura e riabilitativo più ampio, che interviene sulle capacità sociali, relazionali, professionali per poter progettare, con l’utente, il futuro».

Quali sinergie sono state attivate con i servizi territoriali che si occupano di salute mentale e disabilità in genere?
«In questi anni come Associazione abbiamo messo a disposizione dei servizi il nostro strumento, “il teatro”, per promuovere progetti di sensibilizzazione, lavorare con le famiglie, divulgare nuovi progetti, animare momenti  formativi degli operatori.
Il teatro che noi abbiamo utilizzato (il TDO-Teatro dell’Oppresso, il Playback-Theatre, l’improvvisazione), è sempre stato, per scelta, uno strumento che prevede l’incontro e lo scambio con il pubblico; per le sue caratteristiche, quindi, ben si presta ad essere utilizzato in diversi contesti e con obiettivi differenti».

Vi è capitato di organizzare iniziative in collaborazione con le scuole? E tra ragazzi e adulti, quali sono le differenze nella percezione della disabilità?
«In questi anni la collaborazione con le scuole è stata costante (scuole aperte, Progetto Calamaio del CDH-Centro Documentazione Handicap di Bologna ecc.). Con i ragazzi è sicuramente tutto più semplice, ci sono meno pregiudizi, c’è curiosità e interesse. Gli incontri con le scuole, partendo dai bambini della scuola materna, sino ad arrivare alle superiori, sono stati sempre momenti molto vivaci, coinvolgenti e, aspetto non trascurabile, sia noi che loro ci siamo sempre divertiti molto».

Progetti futuri?
«Vorremmo realizzare una sit-com per il web con tutti i Fuori di Teatro e Marcello Savi, ma al momento siamo alla ricerca di finanziamenti. E sicuramente continuare a divertirci insieme, nonostante i nostri ormai dieci anni di attività».

TraAttori in scena
Il gruppo dei TraAttori in scena

E passiamo all’Associazione Culturale TraAttori, che da più di dieci anni lavora nell’àmbito dell’improvvisazione teatrale, producendo spettacoli, corsi e formazione nelle sedi di Fidenza, Piacenza e Cremona. Essa si occupa di divulgare e insegnare questa tecnica agli associati, alle aziende che vogliano sfruttare le tecniche teatrali per i loro management, ai Comuni e alle scuole che intendano inserire corsi teatrali nell’educazione dei loro allievi e alle organizzazioni che desiderino fare beneficenza, usufruendo degli spettacoli dell’Associazione come mezzo.
Ad oggi sono più di cento gli allievi, divisi tra adulti e bambini, che seguono i loro corsi, fanno volontariato agli spettacoli e organizzano manifestazioni per ritrovarsi a parlare dell’improvvisazione teatrale.
L’Associazione è stata fondata dall’attuale Direttivo, formato dai quattro attori Leonardo Cagnolati, Andrea Tanzi, Lorenzo Taddei Morici e Marcello Savi. Ed è con quest’ultimo, presidente e direttore artistico, che scopriamo la proficua collaborazione nata cinque anni fa con i Fuori di Teatro. Il suo è l’inedito punto di vista di un attore che un bel giorno si è ritrovato catapultato in una nuova realtà, alla quale inizialmente si è avvicinato con rispetto e qualche timore, e che oggi costituisce una delle soddisfazioni personali e professionali più grandi. La dimostrazione tangibile che curiosità, impegno, intelligenza e, perché no, un pizzico di follia, sono mattoni fondamentali per costruire la partecipazione e l’inclusione.

Ciao Marcello, benvenuto in «Superando.it»! Hai fatto della tua passione un lavoro e oggi ti occupi a tempo pieno di improvvisazione teatrale, promuovendo stage e corsi per adulti e ragazzi, con l’Associazione Culturale TraAttori di Piacenza. Cos’è esattamente l’improvvisazione teatrale?
«Ciao! Sono molto felice di rispondere alle vostre domande! L’improvvisazione teatrale è una forma d’arte dove non esiste testo e copione, dove puoi essere chi vuoi e fare quello che vuoi. Sembra una cosa adatta solo per talenti o per pazzi, in realtà è una cosa che sapevamo fare da bambini e che pian piano abbiamo abbandonato per una serie di regole sociali che ci hanno plasmato. Il mio compito da formatore è solamente quello di farti ritornare un po’ bambino, abbattendo un po’ delle tue resistenze. Mi son dimenticato una cosa. L’improvvisazione teatrale è dannatamente divertente».

Ciò che i tuoi allievi imparano torna utile anche nella vita di tutti i giorni? Ad esempio, si acquisisce maggiore sicurezza nei rapporti con gli altri?
«Esattamente, il dover lavorare in gruppo con altre persone ti costringe a dover migliorare la tua comunicazione. E per comunicazione intendo: se parlo troppo, sto improvvisando solo io; se non parlo, sta improvvisando solo il mio compagno. Per poter creare qualcosa assieme, siamo costretti ad ascoltare, a farci capire, ad essere aperti e pronti mentalmente, a cambiare idea e a reagire adattandoci alla situazione. Va da sé che allenandosi sul palco in queste abilità, qualche vantaggio lo si porti a casa».

Tra i vari progetti a cui i TraAttori partecipano, si annovera un’importante collaborazione con i Fuori di Teatro. Cosa avete organizzato finora insieme?
«Con i Fuori di Teatro sono ormai cinque anni che porto avanti un progetto meraviglioso. È assolutamente il progetto che mi da più soddisfazioni.
Sono sincero, quando ho iniziato ero molto scettico. “Ma che esercizi possono fare dei ragazzi con dei problemi mentali? Saranno in grado? Si divertiranno? Quanto recepiranno? Sarò in grado? Riusciranno a improvvisare?”. Per fortuna la mia curiosità mi ha fatto superare immediatamente questo momento, e subito dopo un paio di lezioni mi sono accorto che avevo di fronte un mondo da esplorare, che mi avrebbe sorpreso e che avrebbe sorpreso anche i ragazzi.
A distanza di quattro anni, abbiamo all’attivo più di trenta spettacoli, ci troviamo ogni settimana per l’allenamento, abbiamo una pagina Facebook attivissima e abbiamo in cantiere diversi progetti, fra i quali la realizzazione della prima sit-com per il web con tutti attori del servizio.
Approfitto dello spazio che ci concedete per far un appello a qualche banca, fondazione, associazione, azienda o altro che creda nel progetto e sponsorizzi l’iniziativa, che ha lo scopo di abbattere il muro della disuguaglianza, della diversità e del pregiudizio, attraverso una serie di video divertenti e allo stesso tempo istruttivi».

In base alla tua esperienza, quali sono i pregiudizi più duri da abbattere nei confronti della disabilità e, in modo particolare, del disagio mentale?
«Gli stessi pregiudizi che ho avuto io quando ho iniziato il mio percorso con i Fuori di Teatro. “Cosa potranno fare? Quanto capiranno? Come gli spiegherò gli esercizi? Mi faranno pena?”.
Niente di più lontano dalla realtà. È vero che magari non tutti gli esercizi possono essere praticati, anche se il più per motivi atletici, ma in realtà se ne possono fare altrettanti che non immaginavo neanche. Nuovi, diversi, che mi hanno aperto gli occhi alla diversità. La diversità non è esclusione, ma ricchezza. Senza contare che sono tremendamente divertenti, quando improvvisano. E penso che questo sia forse il motivo principale per cui c’è così entusiasmo. I ragazzi – anche se ovviamente guidati – si sentono liberi di esprimersi senza essere giudicati, e il fatto che riescano a far ridere la gente per le loro abilità, allo stesso modo dei volontari che improvvisano con loro, li rende più sicuri di se stessi. È come se scattasse qualcosa in loro. Una luce negli occhi che li fa star bene e, egoisticamente, fa star bene anche me».

Pensi che i vostri spettacoli abbiano creato un ponte su cui costruire una nuova cultura dell’inclusione? Quali commenti hai raccolto tra gli spettatori?
«Io penso che questo progetto abbia una forza devastante. È la dimostrazione pratica del film con Claudio Bisio Si può fare, che aveva lo scopo di sensibilizzare la gente sulle capacità che questi ragazzi hanno e che troppo spesso, per ignoranza, non vengono considerate e messe da parte. Ogni volta che ci esibiamo di fronte a un pubblico, soprattutto ai ragazzi delle scuole, ci accorgiamo dagli sguardi coinvolti, di quanto arrivi un messaggio diretto alle loro coscienze, senza bisogno di dir nulla. E la cosa più incredibile, è che noi sul palco ci stiamo divertendo come bambini! È proprio vero: una risata salverà il mondo!».

A livello personale e professionale, cosa ti ha regalato la conoscenza dei Fuori di Teatro?
«La cosa che mi rende più felice è vedere che tante persone si stanno interessando al progetto, inizia ad esserci movimento attorno a noi. Nell’ultimo anno si sono aggregati come volontari cinque-sei ragazzi under 25, e questa è una cosa bellissima, considerando che far volontariato è merce rara per i giovani. Io sono solo un novello, però, per questo non voglio dimenticare chi da anni sta portando avanti questo meraviglioso progetto con costanza e dedizione, prima fra tutte Roberta, poi Fulvia, Franca, Angela, Claudio, Patty ecc. che hanno messo e continuano a mettere il cuore nonostante le mille difficoltà e i mille tagli.
A livello personale devo dire grazie ai Fuori di Teatro. Per mille motivi. Ma questi li tengo per me!».

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