Lo scorso 25 novembre si è celebrata la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, data scelta in ricordo della brutale uccisione di tre sorelle attiviste dominicane nel 1960. Sarebbe un discorso troppo lungo affrontare le motivazioni della violenza di genere. Vorrei piuttosto soffermarmi su un aspetto poco trattato e conosciuto, ma forse anche più grave, cioè la violenza su donne con disabilità.
Fare violenza è già di per sé un atto esecrabile, ma farla su una donna o su un bambino diventa abominevole, ancor di più se su persone con disabilità, e in particolare donne, perché più deboli ed esposte ad ogni tipo di sopruso.
È indubbio che nell’immaginario collettivo le donne con disabilità siano viste come asessuate, prive di charme, di attrattiva e quindi incapaci di suscitare emozioni e desideri. In realtà le statistiche parlano chiaro: il 40% delle donne violentate sono disabili, ma solo il 10% denuncia il fatto, sia per vergogna, per senso di colpa, per ignoranza e omertà di familiari o di che altro.
Secondo quanto detto durante un recente convegno tenutosi a Roma, dal titolo Ferite dimenticate: prospettive di genere sulla violenza sociale [se ne legga anche la nostra presentazione, N.d.R.], si stima che in Europa, ancora oggi, le donne che subiscono violenza siano tra un quarto e un quinto della popolazione femminile, e che il numero raddoppi nel caso delle donne con disabilità, poiché esse sono discriminate sia in quanto donne, che in quanto disabili. Eppure, nonostante questi numeri, si tratta di un aspetto del fenomeno ancora poco conosciuto e sono poche le Associazioni di settore che se ne occupano.
Sempre in occasione di quel convegno, si è fatto riferimento anche a uno studio che ha coinvolto 415 donne con disabilità, e che ha dimostrato una connessione fra disabilità motorie, isolamento sociale e probabilità di subire violenza.
La testimonianza prodotta a Roma da Emanuela fa capire bene questa connessione. La ragazza, infatti, dopo che il medico curante le aveva sconsigliato di continuare a fare equitazione per via della postura rigida dovuta alla tetraparesi spastica, aveva posto tutte le speranze in un fisioterapista il quale le assicurava dei miglioramenti, se avesse fatto certi esercizi con lui. Ma quegli “esercizi” altro non erano che rapporti sessuali, solo che lei non se n’era resa conto, non avendo ricevuto alcuna educazione sessuale né a casa, né a scuola. Solo dopo avere raccontato tutto alla madre, la storia è venuta a galla e si è conclusa con regolare processo, con una giusta condanna al violentatore.
Non sempre, però, si trovano giudici e inquirenti preparati a questo tipo di situazioni. Molte volte, infatti, non viene dato il giusto peso o si scambiano per “fantasie” le storie di violenza raccontate da donne con disabilità, soprattutto se con problemi psichici o psicologici.
Occorre quindi una grande rivoluzione culturale, a cominciare dalla scuola, che deve insegnare il rispetto reciproco e l’uguaglianza sia di genere, sia fra “normodotati” e disabili. Anche una buona educazione sessuale eviterebbe casi come quello di Emanuela, insegnando come reagire e difendersi da chi vuol solo fare del male. E pure le famiglie devono collaborare, non isolando il congiunto disabile e collaborando con le autorità competenti, senza vergognarsi del fatto accaduto.
Molte donne – disabili e non – subiscono violenze di ogni tipo, strutturali, fisiche, verbali, psicologiche e finanziarie. Ma fino a quando non si libereranno della vergogna, dei sensi di colpa e della paura, e non prenderanno coscienza di sé, pretendendo strutture e consultori adeguati, la violenza continuerà a germogliare e crescere indisturbata, facendo vittime indifese.
Sui temi trattati nella presente riflessione e sugli Atti del Convegno di Roma citato da Maria Pia Amico, suggeriamo ai Lettori anche il nostro ampio approfondimento, curato una decina di giorni fa da Simona Lancioni e pubblicato con il titolo Le donne con disabilità e quelle ferite dimenticate.