C’è chi corre per me. Io posso essere o non essere d’accordo, ma lui corre. E fa bene, fa bene, perché non corre solo per me, ma per una buona causa.
Ci sono tante persone che corrono, viaggiano, nuotano per una buona causa e fanno bene, fanno tanto bene, ma io resto fermo. Forse, in questo caso specifico, la corsa mi aiuterà a vivere meglio. La ricerca a rendere possibile un giorno in cui tornerò a correre, intanto c’è chi corre per me. Che non sono io.
«Sai quello che lasci non sai quello che trovi»: Michele Evangelisti, un ragazzone del 1980, è partito il 13 novembre per la propria sfida denominata Across the Outback [se ne legga già ampiamente anche su queste pagine, N.d.R.]. Da Darwin, che è una località dell’Australia del Nord, per arrivare il 31 dicembre ad Adelaide, nella parte meridionale della nazione. Non si era dato una data precisa, proprio perché si sa quando si parte e non si sa quando si arriva, specie da quelle parti che sono il regno degli animali più antipatici del mondo: ragni, serpenti, varani…
3.100 chilometri, centimetro più, centimetro meno, che è stato possibile acquistare con donazioni a partire da 5 euro e il cui ricavato verrà devoluto a favore dell’AUS Niguarda (Associazione Unità Spinale) di Milano. Quest’ultima fa tante belle cose fra convegni, sportelli informativi, laboratori e altro. E anziché raccogliere fondi per la causa con bamboline, piante e manufatti vari, li ha raccolti in questo caso grazie ai benefattori che acquistano la strada fatta da Michele. Si compra un pezzo di strada, quindi. Non ti ritrovi l’asfalto a casa – e non corri il rischio di trovarti in veranda un lucertolone di un metro e mezzo… -, però hai la soddisfazione che quel chilometro di corsa è stato percorso con te. Una soddisfazione per sportivi da poltrona, ma anche per generosi alternativi. Un modo innovativo per fare del bene.
Innovativo… Abbastanza attuale, è meglio dire. Di tendenza, meglio ancora, poiché tali iniziative non nascono con Michele. C’è chi nuota, chi dipinge e chi corre per me. Per me… Io per me corro io, davanti al computer per ore tutti i giorni, che non è come correre nel deserto. Non corri il rischio di una distrazione alla caviglia, ma di una distrazione a seguire il tuo lavoro, quella sì. Ma ci può essere piacere nel sapere che qualcuno corre, si affanna, fatica e vince per te?
Alcuni mi spingono ad andare al mare. Non penso per indurmi a completare il danno che mi ha reso “solo” paralizzato nell’88, ma per farmi godere l’ambiente. No, grazie, non fa per me. Andare al mare per me significa andare in acqua. Fare il bagno. Scendere in apnea a pescare o andare a gettare le lenze. Se non lo posso fare non è mare. È un non senso. Quindi perché andarci?
Se mi reco in un luogo, anche se non posso interagire più di tanto data la mia paralisi, deve crearsi una relazione fra me e quel luogo, altrimenti non vale la pena. Se non si crea relazione, partecipazione vera, non funziona.
Mi piace guidare. Il giorno di quel tuffo in mare avevo conseguito la patente. Sono cresciuto fra i motori perché mio padre faceva il meccanico. Ho sempre amato le automobili. Non posso più guidare: andrei lo stesso a una rassegna di auto sportive? Certamente sì.
Non potrei salire su quelle auto, tantomeno guidarle – e anche se potessi, non penso che troverei qualche sciagurato da mettere in mano a uno sconosciuto una Ferrari 250 GTO – ma mi ci troverei immerso. Sarei parte di quella marea. Potrei vedere, senza toccare. Potrei sentire, senza respirare. Potrei esserci, senza possedere. Nell’acqua, in spiaggia, invece no.
Sembrano sottili differenze. Un’acrobazia di atteggiamenti buona a tirarmi addosso l’attenzione dello psicanalista. Ci venga, lo psicanalista, che ne parliamo. Persino in spiaggia, se vuole. Non la detesto. Disamorata sì, esecrabile no. Una cosa, dal mio punto di vista, è assistere a uno spettacolo che non senti tuo perché è distante dal tuo modo di concepirlo. Un’altra è farne parte per come è possibile.
Sicché mi sta bene che qualcuno corra, nuoti o crei un’opera d’arte per me, ma affinché io senta i piedi che fanno male dentro le scarpe, le gocce di sudore dalla fronte dentro gli occhi e l’entusiasmo del traguardo ondeggiante per l’effetto ottico del calore che la terra emana come in un miraggio, ecco, per questo c’è bisogno di un di più. Anzi, di un diverso.
Serve che l’esperienza mi coinvolga, mi trascini e mi emozioni. Tutto potenzialmente mi può travolgere stupendamente e ben venga l’esperienza benefica di Michele. Doniamo i nostri 5 euro. Seguiamo i nostri campioni con le telecamere montate loro addosso, i geolocalizzatori, e la realtà virtuale, ma lasciatemi scegliere che sia io a correre per me. Dove voglio e come posso.