Con riferimento alla lettera aperta inviata alla neoministra dell’Istruzione Valeria Fedeli da numerosi insegnanti di sostegno, recentemente riportata in un articolo del «Corriere della Sera» dei giorni scorsi, intitolato Sostegno ai disabili, rivolta dei docenti contro la riforma in arrivo, mi permetto di esternare alcune brevi considerazioni.
Innanzitutto, vorrei subito precisare che ogni informazione finora fornita sulla riforma del sostegno ai disabili a scuola – una delle Deleghe al Governo previste dalla Legge 107/15 [“Buona Scuola”, N.d.R.] – sono solo indiscrezioni, anticipazioni, dichiarazioni. Eppure tali notizie sono state ugualmente sufficienti ad alimentare già forti malumori e tensioni, forse per ora un po’ troppo prematuri e ingiustificati, da parte di circa quaranta Associazioni e decine di sigle di docenti per il sostegno, riunitesi nel gruppo dei cosiddetti “partigiani della scuola pubblica”.
Personalmente, non condivido i contenuti della loro missiva alla Ministra, ritenendo invece assolutamente indifferibile e necessaria la riforma dell’attuale sistema italiano dell’inclusione scolastica. A mio modesto avviso, infatti, la riflessione sull’imminente Delega sul sostegno non può essere animata dalla voglia di “trincerarsi” nella tutela ad ogni costo dell’esistente o in rimpianti di un passato che poteva essere e che non è stato, come mi pare stiano facendo i promotori della sopraccitata protesta. Al contrario, essa dev’essere ispirata dalla convinzione che solo guardando avanti, anche se con “realismo”, si riuscirà finalmente a garantire il migliore futuro possibile all’inclusione scolastica degli alunni/studenti disabili italiani.
Entriamo dunque nel dettaglio delle eventuali criticità che secondo i “partigiani della scuola pubblica”, potrebbero scaturire dalla riforma in arrivo. Uno dei punti deboli di essa, secondo la loro opinione, sarebbe il cosiddetto “profilo di funzionamento”, che dovrebbe servire a definire il numero di ore di assistenza per ogni studente con disabilità e che, secondo la prima analisi del corpo docente specializzato, rischierebbe di penalizzarne fortemente i bisogni, in quanto non terrebbe conto della Diagnosi Funzionale (DF) e del Profilo Dinamico Funzionale (PDF).
Al riguardo, mi permetto di osservare che lasciare che la definizione delle necessità di ore per il sostegno sia determinata da una diagnosi, come oggi avviene erroneamente il più delle volte, e non dagli interventi didattici del PEI (Piano Educativo Individualizzato) e dunque da un progetto educativo “vero e proprio”, questo sì che è delegare alla Sanità la principale prerogativa dell’educazione, quella di definire i bisogni formativi dell’alunno.
Infatti, un’altra grave lacuna dell’emanando Decreto sull’inclusione, denunciata dagli insegnanti di sostegno, sarebbe il cambiamento di prospettiva per cui il docente per il sostegno diverrebbe una sorta di “tutor iperspecializzato” nell’assistenza agli alunni con disabilità, ma non necessariamente un insegnante; in altre parole, tale nuovo approccio “paramedico” snaturerebbe la professionalità dell’insegnante di sostegno, collocandolo sullo stesso piano delle figure socio-sanitarie che già operano in contesti non scolastici con il ragazzo disabile.
A tal proposito, vorrei rappresentare agli amici docenti “in rivolta” che sulla base delle notizie finora trapelate, proprio per porre rimedio alla precarietà di ruolo e funzione degli insegnanti per il sostegno, tramite la Delega sull’Inclusione si andrebbe finalmente nella direzione di una loro formazione iniziale e continua, con specificità profonde e una conoscenza adeguata delle esigenze degli alunni con disabilità. Dunque, altro che “non insegnanti” o addirittura figure “medicalizzate”! Essi dovrebbero essere invece insegnanti “universali”, ma con una specializzazione sui temi dell’inclusione e sulle singole disabilità, assurgendo quindi – finalmente – a un ruolo ben definito, con il possesso di competenze pedagogiche, didattiche e metodologiche capaci di renderli un supporto efficace ai docenti curricolari e agli Organi Collegiali nella progettazione, realizzazione, monitoraggio e valutazione di un’offerta formativa realmente inclusiva.
In particolare, per tutti i gradi di istruzione, per poter insegnare sul posto di sostegno, dovrebbe essere obbligatorio conseguire 120 crediti formativi universitari (CFU) sull’inclusione scolastica, mentre oggi si diventa docenti di sostegno con soli 60 CFU, ovvero con un anno di specializzazione. Tutti i futuri docenti di ogni ordine e grado dovrebbero avere inoltre, nel loro percorso di formazione iniziale, crediti riguardanti le metodologie per l’inclusione.
Ma nel mirino degli insegnanti specializzati in subbuglio c’è anche la mobilità della riforma della Buona Scuola, che avrebbe lasciato «ben 50 mila studenti senza docente specializzato sul sostegno».
Su tale aspetto specifico, per dovere di cronaca, corre l’obbligo chiarire che tali procedure di mobilità non hanno nulla a che fare con la prossima riforma del sostegno. Esse, infatti, sono state l’errata soluzione adottata dal precedente ministro Giannini, a seguito delle tantissime mancate ammissioni dell’ultimo concorso – il cosiddetto “Concorsone” – e dell’enorme domanda di insegnanti di sostegno (circa 120.000 in servizio di cui circa il 60% di ruolo), che hanno letteralmente mandato in tilt il sistema scolastico territoriale.
Si ricordi a tal proposito la Nota Ministeriale Protocollo n. 24306 del 1° settembre 2016, che recitava testualmente: «In caso di esaurimento degli elenchi degli insegnanti di sostegno compresi nelle graduatorie ad esaurimento, i posti eventualmente residuati sono assegnati dai dirigenti scolastici delle scuole in cui esistono le disponibilità, utilizzando gli elenchi tratti dalle graduatorie di circolo e d’istituto, di prima, seconda e terza fascia». Migliaia di cattedre di sostegno sono state perciò affidate a docenti senza alcun tipo di specializzazione, costringendo in tal modo le famiglie di persone con disabilità a ricorrere sempre più spesso ai giudici per dare un’istruzione ai loro figli.
Per la verità, contro queste ambiguità e “distorsioni” del sistema, pare che l’obiettivo dichiarato dell’emanando Decreto Delegato sull’inclusione sia – oltreché quello di garantire una formazione specifica universitaria ai futuri insegnanti per il sostegno e una maggiore specializzazione sulle singole disabilità a tutti i docenti attualmente in servizio (attraverso il “famoso” Piano Triennale di Formazione Obbligatoria) – anche e soprattutto quello di assicurare la continuità del diritto allo studio degli allievi con disabilità, facendo sì che gli stessi abbiano lo stesso docente per il sostegno per l’intero ordine o grado di istruzione. Quindi il medesimo insegnante per il sostegno per i cinque anni di scuola primaria, per i tre anni di scuola secondaria di primo grado e per i cinque anni della scuola secondaria di secondo grado.
Pertanto, la continuità didattica si dovrebbe realizzare attraverso quattro ruoli per il sostegno (infanzia, primaria, secondaria di primo grado e secondaria di secondo grado), in cui bisognerà permanere prima di transitare sul posto comune.
Infine, i docenti “partigiani della scuola pubblica” lamentano che, senza aumentare le ore di sostegno (ne servirebbero almeno diciotto a settimana), gli alunni/studenti con disabilità non avranno mai la possibilità di apprendere come gli altri.
Relativamente a quest’ultimo punto, a mio parere il problema non sta nel numero di ore di sostegno (che stanti così le cose nell’attuale sistema educativo e formativo italiano è comunque importante), ma è quello di capire se, con la futura Delega sull’inclusione ci sarà un effettivo cambiamento qualitativo. Infatti, come riportato dal rapporto annuale sull’inclusione diffuso dall’ISTAT qualche settimana fa [se ne legga approfonditamente anche nel nostro giornale, N.d.R.], gli alunni italiani con disabilità che hanno frequentato le scuole primarie e secondarie nell’anno scolastico 2015-2016 sono stati 155.971, mentre gli insegnanti per il sostegno sono arrivati a quota 82.000, uno, cioè, ogni due alunni con disabilità. Eppure, nonostante assistiamo a una crescita esponenziale del numero degli insegnanti specializzati, l’equazione “più sostegno = più inclusione” sembra non funzionare affatto nel presente sistema d’istruzione italiano. Allo stato attuale, invece, siamo effettivamente ancora costretti ad imbatterci il più delle volte in educatori e docenti con un’inappropriata preparazione e una formazione inadeguata ad assicurare un’inclusione scolastica di qualità ai ragazzi con disabilità del terzo millennio.
Il messaggio della “normale” didattica inclusiva stenta ancora a decollare nella scuola italiana e ci scontriamo di sovente con interventi didattici inclusivi esclusivamente “episodici”, con il solo carattere dell’urgenza e dell’emergenza e non del “contesto”.
Voglio dire che la sola assegnazione dell’insegnante di sostegno (anche con un numero congruo di ore), agli alunni/studenti con disabilità non è sufficiente a garantirne il successo scolastico e formativo, se non affiancata da un contesto veramente “inclusivo”.
La nomina del docente per il sostegno con un numero adeguato di ore, pur rappresentando un sacrosanto diritto assolutamente esigibile dai nostri ragazzi e dalle loro famiglie, da sola rischia di essere quasi inutile e di ripetere le “distorsioni” e gli sbagli dell’attuale modello, che hanno finito per provocare i deprecabili fenomeni della deresponsabilizzazione dei docenti curricolari rispetto ai loro alunni con disabilità e della perversa delega al solo collega di sostegno dei loro insegnamenti e delle loro valutazioni.
Soltanto se la prossima Delega sull’Inclusione promuoverà l’organizzazione di un contesto veramente accogliente e inclusivo, dove il Piano Annuale per l’Inclusività (PAI) sia parte integrante della progettazione, della didattica e della valutazione delle Istituzioni Scolastiche italiane e, dunque, anche dei loro Piani Triennali dell’Offerta Formativa, si potranno realisticamente garantire per ogni allievo quelle condizioni di pari opportunità nel raggiungimento del massimo possibile dei traguardi individualizzati e personalizzati d’istruzione, tanto decantate dalla recente normativa italiana sull’autonomia scolastica.
In conclusione, ai “partigiani della scuola pubblica” suggerirei invece di puntare il dito contro l’unico “sesquipedale” errore strategico della futura Delega sull’Inclusione, che mi sembra essere – senza timore di smnetita – il totale mancato concreto coinvolgimento delle Associazioni di e per persone con disabilità, delle loro famiglie e, soprattutto, dei docenti per il sostegno nell’iter di emanazione. Il mio auspicio, quindi, è che la nuova ministra Fedeli assuma un atteggiamento più partecipativo ed ascolti di più chi questi problemi li vive quotidianamente sul campo.
Tuttavia, tale importante traguardo potrà essere perseguito se si abbandoneranno finalmente posizioni preconcette di piccolo cabotaggio, nella consapevolezza che solo la collaborazione e il confronto aperto tra tutte le parti interessate potranno rendere la via inclusiva intrapresa dalla scuola italiana già quarant’anni fa la strada maestra per l’educazione e l’istruzione di tutti e di ciascuno.