Alex Langer, uno dei padri dell’ecologismo, scrisse che la cultura ambientalista per affermarsi doveva diventare desiderata. Voleva dire che non bastano le leggi e le sanzioni se i comportamenti corretti sono solo la soddisfazione di un obbligo e non anche un gusto personale per le cose fatte bene, se non si educa al civismo come valore.
Vale lo stesso per la cultura dell’inclusione. L’incontro con le diversità non è mai semplice e forse sta qui uno dei pilastri di senso del mestiere dell’educatore: facilitare l’incontro, permettere a chi è coinvolto di sperimentare successi e non consolidare paure. Paura e ignoranza sono come combustibile e comburente, se l’ambiente è saturo basta una piccola scintilla e tutto brucia. Cultura e conoscenza sono dei presìdi antincendio molto efficaci e, anche per questo, bisogna averne cura.
Aver cura dell’ambiente e immaginare un ambiente migliore ha forse a che fare con l’utopia, ma basta fermarsi un momento per accorgersi che c’è una storia che ha più di cinquant’anni ormai, che molto si è fatto, ma ancor di più resta da fare, stimolati e orientati dall’utopia del civismo, dei diritti, della legalità, della cortesia.
Tempo fa ci si poteva accontentare di offrire alle persone fragili delle belle esperienze, ma sempre connotate da “protezione”, oggi vanno offerti orizzonti di libertà, un modo di agire terribilmente scomodo. Così, se l’assunto della parola Inserimento era nel consentire al “diverso” di stare insieme agli altri, se Integrazione significava «provaci a diventare normale», la parola Inclusione significa «c’è posto per te così come sei: non rinuncerò all’intervento educativo, ma c’è posto per te comunque, a prescindere».
Il bravo operatore non si dimentichi mai quanto tempo c’è voluto perché anche per lui diventasse un po’ più normale l’incontro con il diverso, perché, se se lo dimentica, potrebbe sbagliare i tempi, e il tempo è una variabile importante. Diventa importante allora anche lo sguardo su di sé, lo sguardo di chi guarda, non solo il fare ma anche il racconto e la memoria, per non perdere pezzi.
Ma come fare? Per prima cosa vorrei parlare di passione. Passione per ciò che fai e per come lo fai è quel qualcosa che leggi negli occhi di tanti insegnanti che ci provano ogni giorno senza avere bisogno di scomodare chissacché, ma semplicemente perché «è così che si fa».
Giorni fa con mia moglie abbiamo incontrato casualmente una delle maestre della scuola dell’infanzia dei nostri figli; si sono messe a parlare di scuola e di bambini, anche di bambini complicati, diversi; mia moglie è un’insegnante per il sostegno (e dire per è diverso da dire di). Le ascoltavo e a un certo punto lei, chiedendo dei nostri figli, ha parlato di quel che facevano a scuola, si ricordava nei dettagli i loro disegni (sono passati molti anni..) e faceva dei collegamenti tra i dettagli dei disegni di allora e alcuni aspetti di carattere che ora vedo in loro. Ero a bocca aperta, mi chiedevo: «Ma come fa a ricordarsi?». Ma lei mi ha detto che se li ricorda tutti di tutti e se le guardavi gli occhi vedevi che era proprio così: questa, io credo, è una buona descrizione della parola passione.
Inserisco un altro elemento, che chiamo “i testardi dell’inclusione”. Come quelli che festeggiamo oggi e che da trent’anni, anziché fare le loro cose senza disturbare, si ostinano a fare macchie con il loro inchiostro e il loro “calamaio” [il presente testo è stato pronunciato il 3 dicembre 2016, in occasione del trentennale del “Progetto Calamaio” di Bologna. Se ne legga anche in calce, N.d.R.]. I testardi dell’inclusione non sono più buoni di altri, anche se a qualcuno fa comodo pensare a una comunità di buoni, cui destinare ogni tanto qualche spicciolo, giusto per pulirsi la coscienza. Sono (posso dire siamo?) persone a cui piace fare, provare, aggiustare più che comprare, farsi domande senza prendere paura se non si trova subito la risposta, persone che si riconoscono al primo sguardo, che si annusano e sanno di fare parte di una minoranza, ma non per questo si intristiscono.
E allora forse oggi non stiamo celebrando voi e il vostro compleanno [del “Progetto Calamaio”. Si legga sopra, N.d.R.]: siete voi che permettete a noi di ritrovarci, ri-annusarci, voi che ci date il pretesto per mettersi il vestito buono, perché questo è un evento, mica bisogna farsi trovare impreparati. E allora grazie di questo.
Un altro elemento: la fretta. A volte ci diciamo che se gli altri non ci capiscono, forse stiamo sbagliando qualcosa; ci occupiamo di questioni che richiedono tempo, fatti e anche un po’ di parole, ma se si fa tutto in velocità, non è sempre facile: come faccio a farmi capire con un twitter?
Centoquaranta caratteri per dire qualcosa, prima che l’altro si stufi e cambi canale: quest’ultima frase era di 84 caratteri, spazi inclusi. È su questo piano che va cercato il confronto? Io non ne sono capace, ma allo stesso tempo non sono proprio sicuro che in centoquaranta caratteri si possa ridurre ogni cosa, soprattutto quelle importanti: come la spieghi la Resistenza in centoquaranta caratteri? Come parli di quel che stiamo facendo qui oggi in centoquaranta caratteri?
Non ce l’ho con il mezzo, sia ben chiaro, mi preoccupa la maggiore attenzione dedicata ai contenitori rispetto al contenuto, perché penso che ciò che continua ad essere più importante è il contenuto, cioè costruire un pensiero inclusivo, un approccio un po’ più normale all’inclusione.
Si tratta di un contenuto fragile, da maneggiare con cura perché può rompersi e non tutti sono capaci di aggiustarlo. Per questo, oltre a persone come quelle a cui oggi diciamo grazie per la loro storia, ne servono tante altre che forse oggi ancora non sanno che diventeranno importanti in questo percorso, anche le persone che passando qui davanti e vedendo i cartelli avranno avuto delle reazioni di disinteresse o forse anche di ostilità.
Giorni fa ho avuto l’opportunità di leggere parole che mi hanno fatto riflettere: l’intervento del Papa al III Incontro dei Movimenti Popolari. Ho ripreso un paragrafo che mi sembra particolarmente vicino a ciò di cui ci stiamo occupando oggi qui, a tutto ciò che il Progetto Calamaio rappresenta. Queste le parole del Papa:
«Primo, non lasciarsi imbrigliare, perché alcuni dicono: la cooperativa, la mensa, l’orto agroecologico, le microimprese, il progetto dei piani assistenziali… fin qui tutto bene. Finché vi mantenete nella casella delle “politiche sociali”, finché non mettete in discussione la politica economica o la politica con la maiuscola, vi si tollera. Quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli, mi sembra a volte una specie di carro mascherato per contenere gli scarti del sistema. Quando voi, dal vostro attaccamento al territorio, dalla vostra realtà quotidiana, dal quartiere, dal locale, dalla organizzazione del lavoro comunitario, dai rapporti da persona a persona, osate mettere in discussione le “macrorelazioni”, quando strillate, quando gridate, quando pretendete di indicare al potere una impostazione più integrale, allora non ci si tollera, non ci si tollera più tanto perché state uscendo dalla casella, vi state mettendo sul terreno delle grandi decisioni che alcuni pretendono di monopolizzare in piccole caste. Così la democrazia si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la dignità, nella costruzione del suo destino».
La cultura dell’inclusione ha bisogno di cultura della legalità, del civismo, della democrazia. Si lavora bassi, ma per volare alto. Anche noi possiamo agire ogni giorno senza “disturbare”, oppure essere scomodi, possiamo realizzare tanti “carri mascherati” dove tutti sembrano felici, ma che rischiano di assomigliare a moderne navi dei folli, oppure diffondere il virus dell’inclusione.
Si possono fare un sacco di cose verso i diversi, ma non con i diversi, terrorizzati dall’idea che vengan fatte dai diversi.
Mi si permetta di citare una persona di cui non posso vantarmi di essere stato amico perché non ci eravamo ancora arrivati, ma che mi manca tanto: Franco Bomprezzi. Franco è stato un giornalista e scrittore sempre attivo nell’impegno civile per i diritti. Nel suo romanzo Handicap power, Bomprezzi immaginava una contea dove tutti erano seduti su ruote, con i soffitti delle case alti un metro e cinquanta. Il paradosso del romanzo meriterebbe di essere portato in scena e diventare teatro: credo macchierebbe in modo indelebile i pensieri di molti.
Leggere, pensare, fare, ascoltare, condividere: è lungo l’elenco dei verbi impegnativi che possiamo compilare. Ho chiesto agli organizzatori di questo incontro di mettere nelle cartelle dei partecipanti un post-it dove ciascuno di voi possa scrivere un verbo di qualcosa da fare per continuare a costruire inclusione. Vi chiedo di farlo e di appendere il post-it sul tabellone predisposto, però non dev’essere un elenco di cose che “si dovrebbero fare-ma-non-si può”. Ogni verbo dev’essere un impegno di qualcosa che da domani, da lunedì ciascuno proverà a fare.
Dalle parole del Papa a quelle della neuroscienza, Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese e la loro teoria dei “neuroni specchio”. Da un lato un richiamo alle radici profonde che muovono i “testardi dell’inclusione”, dall’altro la conoscenza dei meccanismi che regolano l’incontro tra i soggetti e favoriscono l’apprendimento di comportamenti.
Dice la teoria – in estrema sintesi, ma spero mi perdonerete – che noi non solo impariamo facendo, ma anche guardando gli altri mentre agiscono. Vorrei dire grazie a tutte/i le/gli insegnanti, educatori operatori e così via, che con il loro lavoro attivano reti per i sostegni, grazie a chi realizza progetti che non fanno solo star bene i destinatari, ma si preoccupano di ciò che gli altri vedono, perché è così che si semina un pensiero condiviso.
Che tracce stiamo lasciando del nostro lavoro, dei nostri pensieri? Molto rimane, a ben guardare, molte sono le conquiste di civismo e le opportunità oggi possibili, ma più che fare un bilancio personale o di un gruppo – bilancio che rischierebbe sempre di essere parziale e che non può diventare la lente attraverso cui guardare la realtà – credo sia importante chiedersi come va la semina, quanta gente, ritornando ad Alex Langer, ha assimilato come un po’ più “normale” un approccio inclusivo fondato sui diritti.
Mi torna in mente una bella frase – quante ne ha dette – di Andrea Canevaro: «La cultura dell’inclusione è rendere normale domani quello che ieri era impossibile». Per spiegare questo esempio, se ce ne fosse bisogno, quando faccio formazione mi metto una mano in tasca e mostro il telefonino, perfetto esempio di qualcosa che fino a non molti anni fa era inimmaginato e di cui oggi è inimmaginabile fare senza.
Penso sia bello, prima che utile, lasciare non solo delle cartelle sui casi, ma anche delle storie su persone, anche su di noi. Chi lavora con un bambino autistico fa un mestiere diverso da chi studia l’autismo, entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro, ma se io subentro a un collega per stare con un bambino autistico, farlo crescere assieme ad altri, penso mi farebbe molto piacere leggere da qualcuno come me delle parole che mi aiutino a cominciare, ad affrontare i disagi iniziali, spesso derivanti dal non saper cosa fare, perché non lo conosco, perché non mi conosce.
La narrazione, allora, può essere una strada da percorrere con maggiore fiducia e intenzionalità. È una strada panoramica, dove ad ogni angolo ci si può fermare per osservare, per pensare, dove poter incontrare gente come me e non sentirsi soli.
Non la faccio facile, non sto parlando dell’“isola che non c’è” e non credo affatto che tutte le persone che si occupano di educazione e del sociale siano persone giuste al posto giusto. Però non può essere un alibi per dire «non si può fare». Un buon progetto non può essere tale solo sulla carta, deve resistere alla pratica, prevedere le criticità e tra queste c’è sicuramente la difficoltà, la stanchezza, o l’incapacità di lavorare insieme ad altri, in rete, conoscendo e cercando ciascuno il proprio posizionamento nella rete, ma non in modo rigido, bensì duttile e permeabile, attenti non solo a sé, ma ai legami della rete, alle sinapsi.
Carlo Lepri lo ha detto bene: «Il nostro lavoro assomiglia alle arcate di un ponte, legate saldamente insieme: ma la solidità di un ponte si misura sull’arcata più debole, non su quella più forte». Aver cura di noi, delle relazioni tra di noi è aver cura del ponte e di chi ci passa sopra, ed è un prerequisito, in mancanza del quale non si deve essere abilitati a lavorare in questo ambiente. Credo serva una azione di manutenzione delle persone che muovono i servizi da tanti anni, per rimediare alla ruggine e per oliare i meccanismi; manutenere non significa affatto mantenere l’esistente rispetto al cambiamento, quanto avere cura di ciò che c’è, evitando inutili, frettolose e pericolose rottamazioni che potrebbero riguardare non solo le persone, ma il pensiero che sta alla base del modello inclusivo.
Non possiamo impedire che continuino ad esserci cose che non funzionano, episodi di violenza o di intolleranza fanno notizia per qualche giorno, chi lavora giorno per giorno per recuperare situazioni difficili o per diminuire la probabilità che accadano lo fa un po’ meno. Ma raccontare storie aiuta anche chi arriva oggi a decidere se vuole provare o meno; non sottovalutiamo che sono poche le opportunità che i ragazzi oggi hanno per stare insieme e che il rovesciamento di posizionamento che oggi ci porta a riflettere non più su cosa si possa dare a chi è svantaggiato, considerandolo pur sempre un peso, ma a come le persone svantaggiate possano essere risorsa per tutti, questo nuovo approccio è in grado di diventare un fondamentale strumento per l’educazione e per consolidare la convivenza pacifica tra le persone, i popoli e le nazioni.
Se la penna è un’arma pericolosa nelle mani di chi scrive come di chi macchia d’inchiostro, a tutti noi compete di imparare a usarla, la penna, e a non restare indifferenti alle macchie. E se in futuro il “calamaio” sarà sostituito da un tablet o da chissà quali altre diavolerie, non ci deve essere in noi la nostalgia del mezzo, ma la costante, testarda passione, per riempire di contenuti e storie questo libro che si è cominciato a scrivere tanti anni fa, di fotografie, di musica e di canzoni.
Ed è proprio con una canzone che vorrei terminare questo mio intervento, una canzone di qualche anno fa scritta da un modenese di Sassuolo di nome Pierangelo e di cognome Bertoli, che mi sembra proprio, e mi piacerebbe lo diventasse, una sorta di inno in cui riconoscersi. Una canzone che ha parole belle e dolci e fa pensare: così le offriamo a tutti, ma proprio a tutti, con una dedica particolare a chi è sulla scena da più di trent’anni e a chi verrà domani.
«E adesso che farò, non so che dire e ho freddo come quando stavo solo
ho sempre scritto i versi con la penna non ordini precisi di lavoro.
Ho sempre odiato i porci ed i ruffiani e quelli che rubavano un salario
i falsi che si fanno una carriera con certe prestazioni fuori orario.
Canterò le mie canzoni per la strada ed affronterò la vita a muso duro
un guerriero senza patria e senza spada con un piede nel passato
e lo sguardo dritto e aperto nel futuro.
Ho speso quattro secoli di vita e ho fatto mille viaggi nei deserti
perché volevo dire ciò che penso volevo andare avanti ad occhi aperti
adesso dovrei fare le canzoni con i dosaggi esatti degli esperti
magari poi vestirmi come un fesso per fare il deficiente nei concerti.
Canterò le mie canzoni…
Non so se sono stato mai poeta e non mi importa niente di saperlo
riempirò i bicchieri del mio vino non so com’è però vi invito a berlo
e le masturbazioni celebrali le lascio a chi è maturo al punto giusto
le mie canzoni voglio raccontarle a chi sa masturbarsi per il gusto.
Canterò le mie canzoni…
E non so se avrò gli amici a farmi il coro o se avrò soltanto volti sconosciuti
canterò le mie canzoni a tutti loro e alla fine della strada
potrò dire che i miei giorni li ho vissuti
(Pierangelo Bertoli, A muso duro, 1979, CGD Records)».