La sentenza del Giudice di Catania che ha assegnato un sostegno per l’intero orario scolastico [se ne legga già nel nostro giornale, N.d.R.] pone a tutti coloro che si occupano di inclusione scolastica un obbligo di riflessione: quel Giudice ha potuto produrre quel provvedimento perché le Leggi in vigore – e soprattutto la loro applicazione – glielo hanno consentito. Le Sentenze, infatti – e non parlo da tecnico del settore – non sono mai giuste o sbagliate, purché siano fondate su norme vigenti e cogenti. Ho cercato quindi di capire su quali basi Sentenze simili (quella di Catania non è la prima) possano giustificarsi e, soprattutto, perché esse rechino soddisfazione a genitori convinti che in tal modo il loro figlio o figlia avrà i giusti interventi per crescere ed essere educato.
Abbiamo cercato spesso la risposta nel ruolo e nella preparazione o meno dei docenti per il sostegno e dei docenti curriculari, piuttosto che in una diversa organizzazione del tempo scuola, e questo è stato sicuramente necessario, ma credo che, per arrivare alla radice del problema, si debba “andare oltre”.
Ho già avuto modo di scrivere, su queste stesse pagine, che l’inclusione non la fa il docente di sostegno, ma il contesto e che uno dei punti di debolezza del nostro modello di inclusione è stato quello di aver visto nel docente per il sostegno il deus ex machina capace di assicurare la riuscita dell’intero processo. Abbiamo anche dibattuto sul livello e sulla tipologia della sua preparazione e sulla preparazione di tutti i docenti, ma abbiamo omesso di riflettere sul fatto che l’intervento di inclusione di cui stiamo parlando si attua in una scuola, in una istituzione nella quale operano delle figure professionali, i docenti, che devono essere sì preparati ad educare, ma attraverso percorsi didattici di “istruzione”; una istituzione che abbia come finalità l’“istruzione” dei bambini/ragazzi e che questa sua funzione, e non altre, debba svolgere con tutti, compresi gli alunni con disabilità.
La scuola non è l’unica agenzia educante, ma è quella che ha come obiettivo l’educazione del bambino/ragazzo attraverso la sua istruzione. Se è vero che alla scuola materna il binomio educatione/istruzione è difficilmente scindibile – nel senso che ciò che si insegna al bambino fa parte di un bagaglio di competenze intrinseche all’educazione delle sue potenzialità di base -, la scuola – a partire da quella primaria e sempre più in quella secondaria – ha come compito l’istruzione ossia l’insegnamento di conoscenze e competenze dei diversi saperi, attraverso i codici formali delle varie discipline, siano esse la lingua, la logica matematica, la geografia, le scienze, la storia e così via. Alla scuola, quindi, si potrà e si dovrà chiedere di fornire questo e non altro anche al bambino/ragazzo con disabilità, secondo il livello del grado di istruzione nel quale egli è inserito e tenuto conto delle sue potenzialità di apprendimento. A questo si aggiunga poi un compito di educazione alla socialità e alla cittadinanza.
È su questa base che dovrà essere redatto il Profilo Funzionale, dal quale i docenti potranno trarre gli elementi per scrivere un Piano Educativo Individualizzato (PEI), nel quale siano indicati gli obiettivi didattici di apprendimento, le modalità e i percorsi necessari a raggiungerli e a valutarli, sia per ciò che concerne l’istruzione, sia per quanto riguarda gli aspetti della “socializzazione”, gli strumenti e le risorse che la scuola con i suoi docenti curriculari e per il sostegno può dare con una didattica inclusiva al bambino/ragazzo, per soddisfarne i bisogni di apprendimento scolastico.
Per le altre necessità educative che il bambino dovesse avere, la scuola non ha le competenze necessarie e non potrà mai averle.
Tenere conto di questo porta la scuola a dover ragionare sul numero di ore di sostegno necessarie, non più in relazione alla gravità della disabilità, ma guardando alle capacità, in riferimento cioè al livello di “istruzione” possibile per l’alunno, rapportato alla tipologia di scuola frequentata.
Per esemplificare: una persona con disabilità intellettiva grave e un cieco hanno entrambi una grave disabilità, ma il loro grado di “istruibilità” – mi si consenta questo neologismo – è ben diverso e al ragazzo cieco potranno servire un numero di ore di sostegno a scalare, via via che egli acquisirà autonomia personale, di mobilità e nel lavoro didattico, oltreché competenza nell’uso degli ausili; invece, nell’alunno con un grave ritardo di apprendimento, verificato che la sua “istruzione” così come sopra descritta non potrà andare oltre un certo limite e che le ore di un docente per il sostegno non serviranno più, di lì in poi la scuola potrà offrire solo occasioni di socializzazione con i compagni, tenendo altresì conto che la socializzazione passa anch’essa attraverso un’analogia di conoscenze.
Non spetta alla scuola scrivere il “progetto di vita” del bambino/ragazzo con disabilità, né esserne la sola responsabile. Essa dovrà essere un importante soggetto di questo progetto, che però andrà “scritto” in un àmbito più ampio e con il coinvolgimento di più agenzie: il PUAD (Punto Unico di Accesso alla Disabilità), previsto dalla nuova Legge Delega sull’inclusione, dovrebbe svolgere questa funzione.
In questi quarant’anni di inserimento/integrazione/inclusione, la scuola – spesso lasciata sola – è stata comunque l’unica che ha sviluppato un’organizzazione mirata al problema della diversità e che ha garantito se non altro l’accoglienza dei ragazzi con disabilità. Per questo ad essa sono stati di fatto demandati la responsabilità e tutto il “carico” educativo dell’alunno con disabilità, ed essa, con tutti i suoi limiti, è riuscita comunque, in questi anni, a garantire un’adeguata istruzione e una vera inclusione a molti alunni con disabilità. E tuttavia, per altri alunni, i cui bisogni educativi travalicano le problematiche dell’istruzione e le sue competenze, non è riuscita, né si può pensare potrà mai farlo.
Non prendere atto di ciò, continuando a cercare delle risposte al mancato successo dell’inclusione solo all’interno della scuola, vuol dire non rendersi conto che quelle risposte essa non potrà darle, perché non rientrano nelle sue finalità e all’interno di essa non potrà esserci il personale preparato a soddisfarle.
Forti dunque dell’esperienza e della certezza che l’inclusione sia il modello giusto per la scolarizzazione dei ragazzi con difficoltà, è il momento di cambiare la prospettiva della nostra azione: uscire cioè dall’hortus conclusus della scuola e rivedere questo modello di inclusione, che “scarica” alla scuola stessa ogni responsabilità nell’educazione del bambino con disabilità, sostituendolo con un modello nel quale la scuola in rete dia all’alunno con disabilità ciò che egli è in grado di apprendere. Questo, però, in un contesto che si faccia carico di quant’altro sia necessario alla sua crescita e alla sua inclusione sociale al di là dell’istruzione, e secondo un vero progetto di vita. Diversamente continueremo a “guardare il dito”, senza “vedere la luna”, e i Giudici continueranno a decidere come si realizza l’inclusione e a discutere sul numero di ore di sostegno necessarie, fino ad arrivare alla totalità dell’orario scolastico, senza che questo, però, dia al disabile le occasioni di crescita di cui avrebbe bisogno e non garantendone certo l’inclusione.