Con il titolo di questa mia riflessione, non sto parlando del Regno dei Cieli, dove secondo il concetto evangelico, «gli ultimi saranno i primi», ma di qui e oggi. Nessuno sia lasciato indietro è infatti il titolo e il principio di base degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, elaborata e condivisa dagli Stati Parti dell’ONU, compresa l’Italia.
Una scuola che lascia indietro gli alunni più svantaggiati, quelli con disabilità gravi dell’apprendimento che non possono arrivare a seguire i programmi accademici, non è una scuola inclusiva, è una scuola che non riesce a staccarsi dal concetto dell’integrazione, ovvero dell’accoglienza di chi in qualche modo riesce ad adeguarsi agli alunni “normali”, ma non è capace di includerli adeguandosi alle loro necessità educative.
In tal senso, mi spiace contraddire una persona esperta e di valore come l’amico Luciano Paschetta, ma mi sembra che nel suo articolo pubblicato da «Superando.it», con il titolo L’inclusione non la garantiscono i Giudici (né la scuola, da sola), parli più da operatore scolastico che da difensore dei diritti delle persone con disabilità.
Sostiene infatti, l’amico Paschetta, che il sostegno all’apprendimento a scuola dovrebbe essere riservato agli alunni «istruibili», perché la scuola avrebbe solo il dovere di istruire, ovvero di fornire «l’insegnamento di conoscenze e competenze dei diversi saperi, attraverso i codici formali delle varie discipline, siano esse la lingua, la logica matematica, la geografia, le scienze, la storia e così via», riconoscendole tuttavia anche «un compito di educazione alla socialità e alla cittadinanza».
Ammesso e non concesso che questi “saperi” – così come vengono sviluppati nei programmi scolastici attuali – servano davvero a costruire cittadini consapevoli e giusti, e una società in cui la diversità è una ricchezza, che cosa dovrebbe farne la scuola dei bambini e dei giovani con disabilità dell’apprendimento, che possono apprendere solo con livelli elevati di sostegni? Dovrebbe, secondo Paschetta, «offrire solo occasioni di socializzazione con i compagni», assumendo le funzioni di una sorta di “baby sitter” che porta il bambino, con o senza disabilità, a giocare con i coetanei ai giardinetti.
Benché mi occupi dei diritti della disabilità da molti anni, non essendo onnisciente, non so molto della cecità, e del resto non mi occorre saperne in un contesto in cui tutte le persone con le più diverse disabilità lavorano insieme, ognuno apportando le proprie competenze a vantaggio di tutti. Ma nemmeno l’amico Paschetta sa molto delle disabilità intellettive e del neurosviluppo, che costituiscono il nucleo delle disabilità dell’apprendimento gravi e permanenti. Non sa l’amico Paschetta che l’educazione, per le persone con disabilità dell’apprendimento gravi e permanenti, ma non immodificabili – nessuna lo è, e nessuno dovrebbe essere considerato “ineducabile” – l’educazione, dicevo, è l’unica strada per raggiungere il maggior grado possibile di indipendenza e di partecipazione, prevenendo un’istituzionalizzazione in età adulta che, come riconoscono tutte le agenzie internazionali di Diritti Umani, dalla Convenzione ONU al Consiglio d’Europa, non è ineluttabile, ma dipende più dall’accesso ad un sostegno e a programmi educativi quanto più possibile precoci, intensivi, appropriati e permanenti, che non dalla gravità della condizione individuale.
Per l’amico Paschetta, tuttavia, a educare i bambini e i giovani con disabilità gravi e permanenti dell’apprendimento dovrebbero essere «altre agenzie» (quali?), escludendoli così di fatto dalla scuola per tutto il tempo in cui hanno bisogno di apprendere, cioè sempre, o quasi, e aprendo così la strada alla creazione di scuole speciali per rispondere alle loro necessità educative.
Scaricare la responsabilità dei più svantaggiati su altri, riservandosi di occuparsi di chi ha la possibilità di raggiungere la “normalità”, ovvero di guarire dalla propria condizione di disabilità o malattia, è il nucleo dell’approccio medico alla disabilità. Gli insegnanti di sostegno si oppongono a una formazione approfondita nelle tecniche educative per le disabilità dell’apprendimento in nome di un presunto pericolo di “sanitarizzazione” della scuola, ma la vera sanitarizzazione della scuola è proprio il rifiuto di attrezzarsi a rispondere alle necessità educative di tutti.
In altri Paesi l’educazione speciale è una disciplina che ha una tradizione e una dignità importanti, e chi ne è esperto – oltre a trarne grandi soddisfazioni professionali – viene considerato come un valido partner alla pari dagli operatori sanitari e sociali. In tutto il mondo sono gli insegnanti, non altri, che portano avanti programmi educativi speciali per bambini e giovani con disabilità dell’apprendimento, programmi che non c’è alcun motivo di non adottare nella scuola ordinaria, a vantaggio di tutti gli studenti. In Italia, invece, si vogliono escludere i più svantaggiati dalla scuola, qualificandoli di fatto come “non persone” da scaricare altrove, e in nome dell’inclusione. In Italia, si rivendica il “privilegio” di rifiutare le difficoltà, di garantire pari opportunità di apprendimento e di crescita insieme ai coetanei agli ultimi fra gli ultimi, di “lasciarli indietro”, contribuendo così a incentivarne la dipendenza in età adulta.
Ma oltre a violare diritti, una scuola che non garantisce un’educazione di qualità in un ambiente davvero inclusivo a tutto i bambini e i giovani, nessuno escluso, non promuove lo sviluppo e danneggia tutta la società.