
Si chiama Amici per casa ed è un progetto partito a Trento nell’autunno del 2012, sulla scia della prima “emergenza Libia”. Profughi o richiedenti asilo segnalati dal Circuito SPRAR [Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, N.d.R.], dopo un corso di formazione e un tirocinio, vivono insieme a persone con problematiche psichiatriche o con lunghe storie di emarginazione, ricevendo dal Comune un contributo che può arrivare fino a 723 euro al mese. Un’esperienza che sfata la logica per cui gli immigrati siano un soggetto fragile da accudire o un “problema da risolvere”: qui, infatti, gli immigrati sono diventati una risorsa preziosa per il welfare locale.
Gli “accoglienti” arrivano dalla Costa d’Avorio, dal Togo, dal Burkina Faso, hanno un’età media di 37 anni e il problema di non avere né un reddito né un tetto. Gli “accolti”, invece – almeno quelli con cui il progetto è partito , sono, come detto, persone con problemi psichiatrici, che nei servizi tradizionali non trovano risposte ai loro bisogni e che anzi, come dice Marina Cortivo, referente dell’area Abitare del Servizio di Salute Mentale di Trento, quei servizi da anni «li mettevano in scacco». Le persone, dunque, firmano un patto e vanno a vivere insieme, in case con i loro nomi scritti sui campanelli, di cui essi stessi curano la gestione quotidiana.
«Una persona che trascorreva più tempo in ospedale che fuori – racconta Cortivo -, ha ridotto i ricoveri a cinque-sei all’anno. Un’altra è riuscita a costruire un vero e proprio progetto di vita indipendente e gli “accoglienti” sono diventati “badanti”, con contratti regolari. C’è chi ha riconquistato la cura di sé e con la propria persona, mentre una donna è stata affiancata da due ragazzi africani che avevano fatto come lei vita di dormitori: l’hanno “riaddomesticata” alla casa e sono riusciti addirittura poi a seguirne l’inserimento in una struttura per anziani, dopo che le era stato diagnosticato un tumore. Certo, bisogna lavorare molto sulla scelta: sia gli “accoglienti” che gli “accolti” devono essere molto chiari nel dire cosa vorrebbero, è necessario che scatti una certa “alchimia” nella convivenza; se non c’è, si prova con un’altra persona. Queste convivenze sono ormai diventate una tessera dell’offerta dei servizi, all’interno dei progetti individualizzati: ci consente di evitare istituzionalizzazioni precoci e di dare una qualità di vita migliore».
Il modello di Trento ha alle spalle una lunghissima tradizione del “fare-assieme”, basata sul riconoscimento che esiste un “sapere esperienziale” degli utenti dei servizi di salute mentale e dei loro familiari. A questo si aggiunge la convinzione che «chi ha vissuto tanti problemi, come i richiedenti asilo, è più capace di stare vicino a chi soffre» e sul fatto oggettivo che «le culture di provenienza di profughi e richiedenti asilo sono meno stigmatizzanti della nostra rispetto alla diversità e alla fragilità», come afferma Renzo De Stefani, responsabile del Servizio di Salute Mentale di Trento, il primo a scommettere sull’idea.
Gli “accolti” ci guadagnano in qualità della vita, perché quella in cui vivono è una vera casa, con un clima familiare, con relazioni affettive autentiche; i richiedenti asilo in dignità. Quello dell’“accogliente”, va ancora precisato, non è un lavoro, ma solo un supporto relazionale, cosicché molti richiedenti asilo approfittano del patto di convivenza, che dà loro una casa e un reddito, per conseguire la licenza media in Italia o per il riconoscimento del loro titolo di studio, dopodiché trovano altri lavori. Alcuni, invece, qui hanno scoperto una vocazione per il lavoro di cura e sono stati assunti da cooperative come badanti. E c’è anche chi è rimasto a vivere insieme agli “accolti”, tanto erano forti e positive le relazioni che si erano instaurate: «L’utente – sottolinea Cortivo – era ormai diventato per loro un “fratello minore”».
Per il Comune, poi, vi è un “effetto collaterale” non certo trascurabile, vale a dire una rilevante riduzione dei costi. «Lo chiamo “effetto collaterale” – dice Zaira Oro, assistente sociale, responsabile dell’Ufficio Servizi Sociali Non Decentrati del Comune di Trento – perché la centratura è sulla qualità della vita e tuttavia la riduzione di costi è talmente evidente che è impossibile tornare indietro: con il contributo massimo, infatti, si arriva a 23 euro al giorno, contro gli almeno 100 di qualsiasi struttura».
E così su questo progetto il Comune di Trento ha deciso di andare avanti: dalle prime convivenze sperimentali fatte tra richiedenti asilo e persone dell’area salute mentale, con il 2015-2016 è stata introdotta anche la convivenza diurna, per persone che hanno bisogno di un sostegno solo in alcune ore della giornata e l’“accogliente” che va al domicilio della persona accolta. È stato inoltre allargato il target dell’utenza, coinvolgendo anziani, minori e persone con disabilità, anche in vista del “Dopo di Noi”. E anche alcuni italiani hanno fatto il corso, diventando a propria volta “accoglienti”. «Certamente – spiega Oro -, è una frontiera su cui investiremo molto. Stiamo lavorando, ad esempio, con due giovani trentenni con disabilità che vivono in un appartamento con “accoglienti”: è una soluzione che ci consente di intercettare in maniera più precisa i bisogni delle persone, diversificando l’offerta».
Ma quali sono le condizioni per realizzare tutto ciò? E perché in tanti sono andati a Trento per vedere da vicino il modello – da ultima Milano, che nel novembre scorso ha mandato i propri osservatori – ma finora nessuno l’ha replicato?
«Come cornice – sottolinea Oro – basta poco, la normativa sull’affidamento familiare e una legge quadro sui servizi sociali che preveda un’accoglienza degli adulti: certo, ci vuole un po’ di fantasia, bisogna cambiare la logica per cui della fragilità si può far carico solo un soggetto “normale”, per solidarietà, non un soggetto che sia a sua volta fragile. Qui invece serve vedere le persone non solo per il problema che hanno, ma per le loro risorse e capacità».
«La differenza – sintetizza De Stefani – la fa avere qualcuno che ci metta la faccia, a livello politico e amministrativo. Oggi il Progetto Amici per casa è un valore riconosciuto, ma all’inizio io e Nicola Pedergnana ci abbiamo messo la nostra credibilità. L’altra cosa è mettere a disposizione personale per seguire queste convivenze: se tu Amministrazione pensi che queste persone siano solo “stravaganze” da lasciare ai margini, non ti metti a inventare un servizio del genere. Il futuro, però, sarà sempre meno appannaggio delle comunità ad alta protezione, costosissime e di scarsa utilità, e sempre più di queste forme, che fanno premio sull’accoglienza e la convivenza tra pari».
A Trento, infatti, ci sono quattro persone part time che vanno nelle case più o meno una volta alla settimana, per verificare il buon andamento della convivenza. La struttura organizzativa del servizio prevede inoltre una cabina di regia mista, composta dai responsabili dell’ASL, del Comune e del Centro Salute Mentale e un “Gruppo Accoglienze” analogo, che propone gli abbinamenti, l’ammontare delle rette, il team che monitora le accoglienze stesse, più un gruppo di auto mutuo aiuto per gli accoglienti.
«In questa proposta – conclude Oro – c’è un elemento di incertezza e flessibilità molto più elevato che nei percorsi tradizionali, lineari e prevedibili, in struttura, e l’operatore si assume oggettivamente una responsabilità maggiore: l’elemento che fa la differenza è avere alle spalle dei vertici che ti supportano e non ti fanno sentire solo. Il valore aggiunto è che questa è un’integrazione reale e sul campo, non scontata, fra sociale e sanitario, una cosa preziosa».
Forse proprio per questo il progetto piace a tutti, ma non è stato replicato da nessuno?
Il presente testo è già apparso in «Vita» e viene qui ripreso – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.
Articoli Correlati
- La disabilità in un campo profughi In un Paese dell'Africa come il Malawi, dove circa due terzi delle famiglie sopravvivono al di sotto della linea di demarcazione della povertà, esiste un luogo dove pur tra mille…
- I richiedenti asilo, i rifugiati e la disabilità Lo SPRAR è il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, istituito da una Legge del 2002, che si compone di una rete strutturale di Enti Locali i quali…
- Richiedenti asilo e rifugiati con disabilità: i dati del 2016 Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) si compone di una rete strutturale di Enti Locali che accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo Nazionale per…