Ringrazio l’amica Donata Vivanti per il suo articolo Nessuno sia lasciato indietro (nemmeno nella scuola), perché, pur conoscendo la mia convinzione e il mio impegno a favore dell’inclusione, questa è la lettura che lei ha dato del mio testo pubblicato anch’esso in precedenza da «Superando.it», con il titolo L’inclusione non la garantiscono i Giudici (né la scuola, da sola). Potendo però pensare che anche altri abbiano interpretato quel mio scritto allo stesso modo, ovvero come volontà di escludere le persone con disabilità grave dalla scuola, il suo intervento mi dà l’occasione di chiarire il mio pensiero.
Non era certo mio intendimento rispolverare vecchi concetti di “ineducabilità” dei disabili, ma muovendo da quella Sentenza del Giudice di Catania che aveva assegnato un sostegno pari all’intero orario scolastico, affidato al solo insegnante di sostegno, ho voluto sottolineare come ad un problema complesso come l’educazione di un disabile con gravi difficoltà di apprendimento, quella Sentenza che affidava alla sola scuola la soluzione del problema fosse assolutamente inadeguata a risolverlo. Il Giudice, infatti, anche in questo caso ha dimenticato che la legge prevede altre figure a sostegno dell’inclusione degli alunni con disabilità e che la scuola è inserita in un contesto, contesto che in casi come questi più che mai serve sia “educante”.
L’amica Vivanti scrive che nel mio articolo ho parlato più da operatore scolastico che da difensore dei diritti delle persone con disabilità. Respingo questa lettura del mio scritto. La mia è la voce di chi da oltre quarant’anni si batte e opera a favore dell’inclusione dei disabili, di tutti i disabili; certo, in esso c’è anche l’esperienza di un ex dirigente scolastico di scuola secondaria di secondo grado, il quale ha sempre sostenuto che nel 1987, quando la Sentenza 215/87 della Corte Costituzionale aprì le porte della scuola superiore a tutti i disabili, andava fatta una seria riflessione pedagogica, capace di costruire un modello veramente inclusivo per questo grado di scuola. Viceversa ci si è limitati (compresa la Legge 104/92) a trasferire dalla scuola dell’obbligo un modello che fin da subito ha rivelato la sua inadeguatezza per garantire l’inclusione nella scuola superiore.
Proverò a chiarire meglio il mio pensiero, avendo ben presenti i princìpi ricordati nel suo articolo dall’amica Vivanti e lo farò nel modo in cui ho sempre agito in questi anni, cercando cioè di tradurre i princìpi in prassi operativa.
In estrema sintesi, possiamo dire che la finalità della scuola dell’obbligo sia l’insegnamento e l’educazione alle diverse aree del sapere, per fornire al bambino/ragazzo gli strumenti essenziali per la conoscenza e le competenze minime per la “comprensione” e l’organizzazione formale della realtà e per orientarsi nella scelta del suo futuro percorso scolastico. Diversa, invece, è la finalità della scuola di secondo grado, che deve fornire agli studenti competenze specifiche a seconda dell’indirizzo e gli strumenti per il loro futuro inserimento attivo nella società, secondo le capacità e potenzialità di ciascuno. E questa – se vogliamo che gli studenti con disabilità siano inclusi – deve essere la finalità anche per loro: al termine del percorso, infatti, dovranno avere acquisito abilità e competenze che, sia pur commisurate alle loro potenzalità, permettano loro il massimo di autonomia e di inserimento socio-lavorativo possibile.
Nel progettare il loro percorso formativo, però, non si può non tenere conto della crescente divaricazione della forbice dei saperi tra la persona con disabilità intellettiva e i compagni. Tale divaricazione, differenziando sempre più gli obiettivi didattici e riducendo quelli comuni possibili, rende via via sempre meno fruibile al disabile il dialogo didattico nella maggior parte del tempo scuola e ciò al di là delle metodologie utilizzate e delle “buone intenzioni”. Tutto questo porta il disabile con grave ritardo di apprendimento a un progressivo isolamento dal gruppo classe e inevitabilmente ne rende sempre più difficile la reale inclusione, a meno che, ricorrendo al cosiddetto principio dell’“accomodamento ragionevole”, si attivino percorsi formativi che coinvolgano anche dei compagni e dilatino il tempo scuola comune fruibile dall’alunno con disabilità. Tuttavia, la scuola non ha quasi mai al proprio interno le risorse per attuare simili percorsi, per farlo occorre agisca con l’aiuto e in rete con altre agenzie educative. Si pensi ad esempio all’alternanza scuola-lavoro e a come essa rappresenti una grossa opportunità in tal senso. Attorno ai progetti di alternanza scuola-lavoro, infatti, è possibile costruire momenti operativi comuni con i compagni, dove vengano richiesti livelli diversi di competenze e valorizzate anche le competenze informali del giovane con disabilità, e dove il docente per il sostegno possa sviluppare con gli insegnanti titolari semplici contenuti, ma coerenti con quanto da loro svolto; nel frattempo, altri operatori, esperti del settore, potranno attivare per lo studente con disabilità momenti di attività pre-lavorative, idonee a svilupparne le capacità operative. In tal modo il ragazzo con disabilità potrà sentirsi parte integrante del gruppo, trovando nuova motivazione al lavoro didattico e migliorando la propria autostima. Viceversa, lavorando in un gruppo classe dove l’insegnamento sia prevalentemente “formale”, egli sarà sempre più lontano dalle sue possibilità e si vivrà sempre più estraneo.
Non so se la necessaria sintesi ha reso giustizia di quanto affermato nel mio precedente scritto, dove ho inteso semplicemente dire che per rendere effettivamente inclusivo il processo educativo del giovane con disabilità intellettiva (e in particolare questo è vero nella scuola secondaria di secondo grado), non basta la scuola: occorre infatti un modello che possa anche prevedere attività coinvolgenti competenze che la scuola non ha e che una vera inclusione non possa prescindere da un lavoro didattico che accomuni il giovane ai compagni, fin là dove possibile, e che ancora, quando serve, la scuola si “apra” al territorio, per attingervi le risorse necessarie. Ma soprattutto occorre un vero progetto educativo che abbia, così come avviene per i compagni “normodotati”, il focus riferito a quello che sarà l’avvenire del ragazzo al termine del corso di studi. Per riuscirci è senz’altro necessario riorganizzare il tempo scuola, ma questo non è sufficiente, se lo si fa senza coinvolgere le risorse del territorio, lavorando in modo coordinato e su obiettivi comuni con le altre agenzie che possono completare il lavoro della formazione della persona nel suo complesso.
Questo non per lasciare indietro l’alunno con disabilità intellettiva, ma nemmeno per fornirgli pari apprendimenti che non sarebbe in grado di comprendere, bensì pari opportunità di apprendimento per raggiungere le finalità comuni, fornendo anche a lui, in situazione di inclusione, il massimo di autonomia e competenze possibili per un suo inserimento attivo nella società.