È in programmazione nelle sale italiane Nebbia in agosto, film di Kai Wessel che racconta la storia di Ernst Lossa, un ragazzo tedesco considerato dal regime nazista come “non adatto” a vivere.
Intelligente e vivace, ma appartenente all’etnia Jenisch [la terza maggiore popolazione nomade europea, dopo i Rom e i Sinti, N.d.R.], orfano di madre, con una difficile infanzia trascorsa in orfanotrofi e istituti di rieducazione, Ernst fu ricoverato a Irsee, filiale dell’Ospedale Psichiatrico di Kaufbeuren.
Inizialmente monastero benedettino, dal 1209 sotto la protezione di Papa Innocenzo III, distrutto nel 1525 e ricostruito in forma barocca, il Castello di Irsee, dopo vari eventi storici, diventò nel 1849 un istituto di ricovero per persone sofferenti di disturbi mentali e dal 1876 fece parte del nuovo Istituto Regionale Psichiatrico di Kaufbeuren, dove, dal 1939 al 1945, nell’ambito del famigerato Programma Aktion T4, furono uccisi circa 2.000 pazienti considerati “non degni di vivere”.
Sono questi i luoghi che hanno offerto lo scenario per ambientare le vicende di Lossa, ben interpretate e ricostruite all’interno delle camerate, nei letti dei pazienti, nel refettorio, nell’infermeria, nello studio del medico che decideva con un’elegante stilografica chi doveva morire.
Il merito di aver fatto conoscere la storia di Ernst Lossa va al professor Michael von Cranach, che ha pure fornito materiale e consulenza storica. Un esempio da imitare.
Nel 1980, infatti, in un periodo nel quale una nuova generazione di psichiatri, influenzati dalle teorie e dalle proposte di Franco Basaglia, intendeva realizzare la riforma della psichiatria, de-istituzionalizzando i pazienti ricoverati negli istituti, Michael von Cranach divenne direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Kaufbeuren.
Fu subito chiaro che ciò che aveva intenzione di attuare non poteva avere inizio senza fare luce sul terribile passato che riguardava i pazienti uccisi nelle stanze dove quotidianamente egli stesso lavorava. Alcuni infermieri, così come alcuni pazienti, avevano personalmente vissuto tali azioni, e quel passato – del quale a lungo non si era parlato e che era rimasto irrisolto – era presente, come una nebbia, sopra l’intero istituto, paralizzando le necessarie azioni di riforma.
Per Cranach era diventato evidente che portare luce dentro tale buio era il prerequisito di ogni attività innovativa e così, con un gruppo di colleghi, iniziò le ricerche presso gli archivi dell’ospedale, intervistò testimoni, cercò materiale tramite la letteratura e le cartelle cliniche e, in questo modo, ricostruì la storia dell’ospedale durante il nazismo e più tardi, tramite un’esauriente ricerca relativa a tutti gli ospedali della Baviera, il retroscena di quegli eventi (si veda: M. von Cranach e H.-L. Siemen, Psychiatrie im Nationalsozialismus, München, Oldenbourg, 1999).
Nel 1999, in occasione del quadriennale Congresso Internazionale di Psichiatria che si svolse per la prima volta in Germania dopo la guerra, ad Amburgo, la Società Tedesca di Psichiatria decise, non senza qualche insicurezza ed esitazione, di documentare ciò che accadde durante il nazismo ai pazienti psichiatrici e diede a Cranach l’incarico di realizzarla.
Ne nacque la mostra denominata In Memoriam, che illustra le fasi che portarono all’uccisione delle persone con disabilità dal 1940 al 1945, utilizzando documenti e testimonianze riguardanti singoli casi. Ci troviamo di fronte a casi chiamati per nome, quindi definibili, riconoscibili, che potrebbero essere anche quelli di ciascuno di noi o del vicino della porta accanto.
Incontriamo Ernst Lossa, un ragazzino di 12 anni e lo seguiamo negli ultimi due anni della sua vita. È vivace, forte, agile, svelto, furbo, è servizievole se preso nel verso giusto, ma ha una «fantasia troppo sviluppata che non gli permette di concentrarsi sui compiti», e che farà da ostruzionismo al programma di uccisioni sanitarie.
E sempre documentato nella mostra, si può leggere anche a quali vette di crudeltà si possa arrivare, nell’invenzione, per esempio, della cosiddetta “Dieta E”, una dieta totalmente priva di grassi che provocava la morte per fame, che fu proposta da Valentin Faltlhauser, primario dell’Istituto di Kaufbeuren, e adottata poi nella quasi totalità degli istituti psichiatrici.
Oggi il Castello di Irsee è un eccellente luogo di formazione, dove si svolgono seminari, convegni, iniziative culturali. Quelli che un tempo erano i reparti di morte oggi sono confortevoli stanze alberghiere, i rintocchi del campanile della chiesa barocca scandiscono il trascorrere del tempo e non più la morte dei ricoverati. Dietro la chiesa sono rimaste le tracce dei tragici avvenimenti. Il locale adibito per l’autopsia (sic) è stato conservato, vi sono esposte le attrezzature e gli strumenti per sezionare i cadaveri, un lettino con supporti adatti per agevolare l’espianto del cervello. Alle pareti tre fotografie di Falthauser che guarda dritto l’obiettivo della macchina fotografica e mostra sospeso tra le sue mani un bambino spastico nudo e piangente. Un po’ più avanti, in un giardino, una scultura e delle incisioni ricordano il crimine nazista.
L’Ospedale di Kaufbeuren, a pochi chilometri di distanza da Irsee, è tuttora un istituto di cura e ricovero psichiatrico, nel giardino laterale un cippo e una scultura fungono da monumento per ricordare le vittime. All’interno, sulle pareti del corridoio antistante lo studio del Direttore, vi sono appese le fotografie degli psichiatri che hanno diretto la struttura. Sotto la fotografia di Valentin Faltlhauser una targa menziona i suoi crimini.
Una copia della mostra In Memoriam, realizzata in lingua italiana/inglese, è stata donata all’AVI di Roma (Agenzia per la Vita Indipendente) ed è permanentemente esposta (ingresso gratuito al pubblico in orario di apertura dell’ufficio), presso il complesso dell’ex Ospedale Psichiatrico Santa Maria della Pietà di Roma, nella Sede del Centro Studi e Ricerche al primo piano del Padiglione 26.
Presidente dell’AVI di Roma (Agenzia per la Vita Indipendente), agvitaindipendente@libero.it.
Accedendo all’ampia ricognizione storica curata da Stefania Delendati nel 2015 e pubblicata dal nostro giornale con il titolo Quel primo Olocausto, oltre ad approfondire i vari temi riguardanti lo sterminio di migliaia e migliaia di persone con disabilità, da parte del regime nazista, si può anche consultare l’ampio elenco di testi da noi presentati in questi anni su tale materia.
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