Voi, consulenti del lavoro, non avete un compito assistenziale, ma promozionale, affinché in ambito nazionale ed europeo le istituzioni e gli attori economici perseguano in modo concertato l’obiettivo della piena e dignitosa occupazione. Perché il lavoro dà dignità (Papa Francesco, nel corso dell’Udienza Giubilare in Piazza San Pietro a Roma, giugno 2016).
La nostra società è sempre più multietnica, multilingue e multiculturale e le aziende sono sempre più lo specchio di queste pluralità. L’allungamento della vita media e della vita lavorativa hanno portato all’esigenza di ripensare il rapporto persona-lavoro. Circa un milione di malati di cancro sono in età da lavoro (Fonte FAVO-Federazione Italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia e Censis) e sono equiparati quindi ai lavoratori con disabilità.
Tali profondi mutamenti della società odierna stanno determinando un cambiamento nelle teorie organizzative aziendali, sempre più orientate al Diversity e al Disability Management, ossia alla gestione di tutte le forme di diversità, quali le differenze di genere, età, provenienza geografica e abilità fisica che, se affrontate in modo consapevole e costruttivo, possono diventare leve strategiche per il bene dell’azienda e del benessere di chi vi contribuisce con il lavoro quotidiano.
In particolare, il Disability Management è un orientamento gestionale che si focalizza sulla persona con disabilità e sulla sua valorizzazione, dispiegandosi in modo pervasivo e trasversale all’interno delle aree e dei processi aziendali, dalla strategia fino alla gestione delle risorse umane, con l’obiettivo di adattare l’organizzazione al fine di accogliere e gestire i bisogni delle persone con disabilità. Si tratta quindi di accorpare diverse competenze professionali relative all’àmbito medico, educativo, manageriale e del lavoro, per costruire in modo strutturato soluzioni finalizzate all’inclusione delle persone con disabilità nel contesto aziendale.
In tal senso, il Disability Manager è il “facilitatore”, ossia la persona (dipendente dell’impresa o ente pubblico oppure un consulente esterno), che definisce, coordina e gestisce il piano di Disability Management.
Il Disability Management si è sviluppato negli Anni Ottanta nel mondo anglosassone per poi diffondersi in altri Paesi. In Italia è arrivato solo alla fine degli Anni Novanta, con l’introduzione di norme sul diritto al lavoro delle persone con disabilità e più specificamente con il Decreto Legislativo 151/15, attuativo del cosiddetto Jobs Act. L’articolo 11, in particolare, ha modificato la disciplina relativa al Fondo Regionale per l’Occupazione (articolo 14 della Legge 68/99) e previsto la possibilità di erogare contributi «per istituire il responsabile dell’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro».
È stata poi prevista anche l’emanazione di uno o più Decreti Ministeriali per la definizione delle «Linee Guida in materia di collocamento mirato» e, al loro interno, la «promozione dell’istituzione di un responsabile dell’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro, con compiti di predisposizione di progetti personalizzati per le persone con disabilità e di risoluzione dei problemi legati alle condizioni di lavoro dei lavoratori con disabilità, in raccordo con l’Inail per le persone con disabilità da lavoro».
Il «responsabile dell’inserimento», secondo gli indirizzi del nuovo Programma di Azione Biennale per la Promozione dei Diritti e l’Integrazione delle Persone con Disabilità, che è in corso di discussione e approvazione da parte del Governo, dovrà essere definito nei Decreti Attuativi, così come l’istituzione contestuale di un «Osservatorio Aziendale» e di un «Disability Manager».
In attesa dei Decreti Attuativi, grandi nomi dell’industria e dei servizi, come IBM, TIM, Unicredit, Unipol, Enel, Hera ecc., hanno dato il via a una serie di iniziative interne che hanno ottenuto ottimi risultati, tanto da poter essere considerate delle vere e proprie Best Practices (“buone prassi”).
Nel caso specifico di IBM, azienda che sviluppa prodotti e soluzioni tecnologicamente avanzate in ambito IoT [“Internet of Things”, N.d.R.] e Cognitive, è presente un team che si occupa del Progetto MWA (M come Mobile, il modello di organizzazione del lavoro; W come Wireless, la tecnologia adottata; A come Accessibily, il protocollo di inclusione delle persone con disabilità), che consiste nella creazione di tecnologie e processi per l’integrazione delle persone con disabilità. Tale progetto funge da incubatore di soluzioni innovative rivolte in primo luogo al mondo della disabilità, ma che possono anche essere adottate per semplificare la vita quotidiana di tutti.
Non mancano inoltre bandi pubblici che incentivano l’adozione di piani di Disability Management, come ad esempio quello della Provincia di Mantova, nonché esperienze nel settore pubblico, come quella del Comune di Bologna.
Le piccole imprese, infine, che compongono l’ossatura del sistema produttivo italiano, possono – per essere in grado di soddisfare queste nuove esigenze – organizzarsi in network, sfruttando sinergicamente servizi e professionalità comuni oppure sfruttare l’esperienza di consulenti specializzati.
Considerata la vicinanza al management aziendale, i consulenti del lavoro e i professionisti HR (gestione delle risorse umane), comprese le APL (Agenzie che promuovono il lavoro interinale), non possono ignorare i suddetti cambiamenti, bensì dovrebbero assecondarli e promuoverli, per esprimere al meglio la propria professionalità ed esplorare contestualmente nuove aree di business.
È noto che la citata Legge 68 /99 ha previsto un obbligo per i datori pubblici e privati di assumere lavoratori con disabilità e appartenenti alle categorie protette in base alle dimensioni aziendali (7% dei dipendenti computabili per le aziende oltre i 50 dipendenti, oltre all’1% riservato a vedove orfani o profughi; 2 lavoratori per le aziende da 36 a 50 dipendenti; 1 lavoratore per le aziende che occupano da 15 a 35 dipendenti ) e che dal 1° gennaio 2017, per effetto della modifica alla predetta norma, introdotta dal Jobs Act (Decreto Legislativo 151/15), le regole del collocamento obbligatorio sono diventate più stringenti, in quanto le aziende obbligate – tra cui ora anche i partiti politici, i sindacati e le organizzazioni non profit – devono effettuare l’assunzione del soggetto con disabilità già con la quindicesima unità computabile e hanno pertanto sessanta giorni di tempo per mettersi in regola, in contrasto con quanto accadeva prima, ove si aveva fino a un anno di tempo per assumere un lavoratore con disabilità dal momento in cui veniva effettuata una nuova assunzione (a partire dalla sedicesima).
Inoltre, il correttivo al Jobs Act (Decreto Legislativo 185/16), ha raddoppiato l’importo per la mancata osservanza dei suddetti obblighi, passando da 62,77 euro a 153,20 euro per ogni giorno lavorativo di ritardo nell’adempimento.
Ebbene, la corretta applicazione delle norme relative al collocamento obbligatorio da parte delle imprese ha da sempre comportato per i professionisti del settore di occuparsi di aspetti quali il computo dell’organico aziendale e della quota d’obbligo (una delle recenti novità prevede, ad esempio, che se i datori di lavoro dovessero avere lavoratori già disabili prima dell’assunzione – anche se non avvenuta tramite collocamento obbligatorio – possano computarli nella quota qualora gli stessi abbiano una capacità lavorativa pari o superiore al 60%), la gestione dei casi di esonero e di sospensione, la presentazione online del prospetto informativo, la predisposizione delle convenzioni. E tuttavia, l’atteggiamento è spesso stato quello della mera e fredda applicazione della normativa vigente.
Ma se invece i consulenti del lavoro e i professionisti delle risorse umane proponessero alle aziende di cambiare prospettiva e quindi di eliminare antichi pregiudizi nel valutare l’inserimento di un disabile in organico, facendo una sorta di “bilancio dell’inclusione” che considerasse anche aspetti intangibili, oltre a quelli misurabili con modalità economico-finanziarie tradizionali (costi- ricavi, vantaggi-svantaggi-limiti e opportunità) e che, anche alla luce delle nuove tecnologie, ponesse l’accento sul valore aggiunto che anche tali persone possono dare alle imprese?
A tal proposito, tra le positività economiche certamente possiamo annoverare il fatto che l’adempimento dell’obbligo di legge evita sanzioni e migliora le relazioni con gli Enti Pubblici. Così come è un vantaggio economico l’incentivo previsto dal Decreto Legislativo 151/15 per l’assunzione di lavoratori disabili con contratto a tempo indeterminato, tramite lo strumento della convenzione. L’incentivo – seppure con una modalità abbastanza tortuosa – viene ora gestito dallo Stato attraverso l’INPS e non più dalle Regioni e dalle Province Autonome; consente inoltre ai datori di lavoro (obbligati e non) di richiedere per la durata di 36 mesi un bonus pari al 35% della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, in caso di una riduzione della capacità lavorativa compresa tra il 67 ed il 79% e invece pari al 70% della suddetta retribuzione, se il lavoratore è in possesso di una riduzione superiore al 79%. Oppure, nel caso di lavoratori con disabilità intellettiva e psichica dalla quale derivi una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, l’incentivo spetta per un periodo di 60 mesi, in caso di assunzione a tempo indeterminato, o di assunzione a tempo determinato di durata non inferiore a dodici mesi, per tutta la durata del rapporto a termine.
Altre positività non immediatamente valutabili si riscontrano all’interno degli ambienti di lavoro, che risultano essere più creativi e motivanti e ove l’aumento della tolleranza riduce la conflittualità. Si predispone una cultura favorevole all’innovazione, grazie alla necessità di introdurre spesso nuove tecnologie per l’inclusione del personale con disabilità, tecnologie estendibili poi a tutti i processi produttivi (si ricorda il già citato caso dell’IBM). E ancora, le aziende acquistano un’immagine e una reputazione positiva nei confronti dei mercati, della collettività, della clientela e dello stesso personale dipendente, tutti vantaggi, quindi, che possono determinare in sintesi un aumento della produttività aziendale.
Per quanto riguarda invece quelle che apparentemente sono negatività economiche – come ad esempio l’adattamento delle strutture per l’abbattimento delle barriere architettoniche e
lo svolgimento delle mansioni – vengono in realtà mitigate dall’esistenza del contributo a carico del Fondo Regionale Disabili in favore dei datori di lavoro, quale rimborso parziale delle spese sostenute allo scopo di adeguare il luogo di lavoro alle esigenze della persona, purché si parli di soggetti con riduzione della capacità lavorativa superiore al 50%. Lo stesso contributo è concesso anche per agevolare il telelavoro dei disabili.
In questo contesto, più che sul telelavoro, una grossa riflessione va fatta sull’utilizzo dello Smart Working ossia della possibilità di lavorare in parte o totalmente fuori dalla sede aziendale negli orari concordati, grazie al supporto di una serie di strumenti quali laptop, cellulare aziendale ecc. Ai vantaggi tipici dello strumento, che consente di ottimizzare il costo del lavoro e le politiche retributive orientate maggiormente al merito e al raggiungimento effettivo degli obiettivi, si aggiungono i vantaggi dell’abbattimento dei costi di gestione e di adeguamento dello spazio fisico per il personale con disabilità e della reale integrazione lavorativa, ciò che vede nelle strutture di Co-Working (che supera le caratteristiche alienanti del telelavoro) un possibile spunto innovativo per i piani di Disability Management.
Lo Smart Working determina anche una riduzione dei costi dell’assenteismo, specie quello relativo all’handicap, il tutto a beneficio dell’efficienza produttiva. E in attesa che venga promulgato il relativo provvedimento normativo, ci sono già dei casi consolidati di buone prassi.
Altri elementi da valutare positivamente sono gli Istituti di Welfare Contrattuale di Previdenza e Sanità Integrativa specificatamente rivolti alle persone con disabilità, così come tutti gli altri strumenti di Work-Life Balance, ovvero di equilibrio tra vita personale e professionale (oltre allo Smart Working, vi è la cessione di permessi a colleghi disabili o con parenti disabili, la priorità nell’accesso al part-time, i permessi orari o giornalieri per motivo di cura o di percorsi terapici), che consentono non solo di incidere sul cuneo fiscale, ma anche di creare reale integrazione e valorizzazione delle persone con disabilità o con gravi patologie, dal momento dell’inserimento sino al termine della loro vita professionale.
In tale contesto, la contrattazione collettiva aziendale riveste un ruolo fondamentale, in quanto oltre a promuovere istituti e strumenti come quelli or ora citati, può intervenire in altre aree, quali le modifiche nella disciplina del comporto o della copertura retributiva della malattia, percorsi formativi, sostegno alla carriera, sostegno economico (implementazione delle causalità per anticipo TFR ecc.), calcolo della produttività rispettoso delle specificità per creare condizioni di vantaggio e di benessere, sia per l’azienda che per i lavori con disabilità.
E tuttavia, non è sufficiente la normativa a garantire l’inclusione lavorativa: è necessario, infatti, il gioco di squadra tra tutti gli attori coinvolti, Istituzioni, impresa, sindacati, lavoratori, dirigenti, professionisti. Sono ancora molte le aziende che assumono solo per adempiere alla normativa: il punto fondamentale, invece, è andare oltre, sviluppando una cultura inclusiva e a questo scopo i consulenti del lavoro e gli specialisti delle risorse umane possono realmente dare un valido contributo.