A lavorare per l’integrazione quando l’insegnante di sostegno non è in classe, dev’essere il docente curricolare. Infatti, la responsabilità dell’integrazione dell’alunno in situazione di handicap e dell’azione educativa svolta nei suoi confronti è, al medesimo titolo, dell’insegnante di sostegno, degli altri docenti di classe e della comunità scolastica nel suo insieme. Ciò significa che non si dovrebbe mai delegare al solo insegnante di sostegno l’attuazione del cosiddetto “Progetto Educativo Individualizzato” (PEI), poiché in tal modo l’alunno verrebbe isolato anziché integrato nel contesto della classe.
Tutti i docenti, quindi, devono farsi carico della programmazione, dell’attuazione e della verifica degli interventi didattico-educativi previsti dal Piano Individualizzato e spetta a loro – in accordo con l’insegnante di sostegno – realizzare quel progetto, anche quando quest’ultimo insegnante non sia presente in aula. Ciò per evitare i “tempi vuoti” che purtroppo spesso si verificano nella vita scolastica degli alunni con disabilità, travisando così il principio stesso dell’integrazione, che è quello di fare agire il più possibile il soggetto insieme ai suoi compagni di classe.
Per quanto poi riguarda l’intervento dell’insegnante di sostegno, il suo obiettivo preminente dovrebbe essere quello della socializzazione, superando attività educative di tipo “1:1” con il ragazzo – ciò che lo “isola” dal gruppo classe – e puntando invece a facilitare/assistere il minore affinché egli stia autonomamente in classe, rispettoso delle regole “del gruppo”.
In questa prospettiva, tale supporto scolastico tenderà per sua natura a ridursi progressivamente, via via che il ragazzo acquisirà un certo grado di autonomia in classe. Solo in questo modo, infatti, egli potrà essere realmente inserito e acquisire gradualmente la capacità di stare in classe e di relazionarsi a insegnanti e compagni autonomamente, indipendentemente dalla presenza del personale di supporto.
Risulta pertanto indispensabile che il rapporto “1:1” sia per lo più a casa e nel corso del setting riabilitativo, per conquistare nel più breve tempo possibile un certo grado di autonomia, eseguendo le istruzioni date dai docenti curricolari, oltreché seguendo le regole sociali e le routine della classe.
Nello specifico caso dei ragazzi con DPS (Disturbi Pervasivi dello Sviluppo), l’interazione tra loro e i compagni “tipici” non e fluida, come normalmente accade tra coetanei: il ragazzo con DPS, infatti, non capisce bene come interagire con un coetaneo e, d’altra parte, un ragazzo “tipico” può trovare laborioso interagire con il suo amico “speciale”. Laddove, poi, a questa difficoltà di interazione insita nella natura stessa del disturbo, si aggiunga l’interferenza di comportamenti disadattivi che possono rendere il ragazzo affetto da DPS “diverso” agli occhi dei suoi coetanei, si crea solitamente una “barriera” che impedisce ai coetanei stessi di relazionarsi con lui. E ciò nonostante, tali relazioni sono assolutamente vitali per lo sviluppo emozionale di un ragazzo affetto da tale patologia.
Sicuramente, dunque, il principale obiettivo che si deve perseguire nell’inserimento scolastico di un ragazzo con questo tipo di disabilità, è proprio quello di introdurlo in un contesto di coetanei con i quali non può fare a meno di avere scambi socio-comunicativi. Ed è così che la scuola può realmente diventare la “palestra privilegiata” della sua capacità di relazionarsi con gli altri. Senza dimenticare, per altro, che, come enfatizzato dalla più recente letteratura, spesso un ragazzo con Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, quando manifesta comportamenti disadattivi ad alta frequenza, finisce per essere isolato dal gruppo che si limita a “prendersi cura di lui”, ma non lo coinvolge in attività che sono fondamentali per la crescita emozionale di qualunque persona, quali feste, occasioni d’incontro ecc.