Secondo una stima della FISH, la Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, la disoccupazione tra le persone con disabilità supera l’80%. Di fatto, quindi, solo un disabile (ma abile e avviabile al lavoro) su cinque trova un’occupazione. Sembra un gioco di parole, ma è la fotografia di una situazione drammatica.
Secondo «Condicio.it», il sito di dati e cifre sulla disabilità promosso dalla FISH, dei 700.000 iscritti con disabilità alle liste di collocamento provinciali (dati del 2013, gli ultimi disponibili), solo il 6,1% ha trovato un posto nelle aziende, pubbliche o private, soggette alla Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili).
Non è solo una questione di crisi economica (che è sicuramente una concausa) o di norme: il Decreto Attuativo 151/15 del cosiddetto Jobs Act, ad esempio, ha introdotto novità rispetto agli incentivi alle aziende con un fondo di 20 milioni. Il problema, però, è culturale, e più precisamente di cultura aziendale. Da un punto di vista manageriale, infatti, troppo spesso l’assunzione di una persona con disabilità è un obbligo di legge, assolto il quale non è necessario trasformare l’assunto in una risorsa produttiva. Per i colleghi, invece, la persona con disabilità diventa un “peso”, perché spesso, essendo collocata in un ruolo inadatto alle sue competenze, non riesce a svolgere correttamente la propria mansione.
A scardinare questo meccanismo e ad avviare un processo costruttivo dovrebbe pensarci il Disability Manager, ruolo importantissimo, anzi centrale, per l’inserimento dei lavoratori con disabilità in azienda, come è emerso chiaramente anche a Milano, nel corso del recente Primo Convegno Nazionale sul Disability Management [se ne legga anche su queste pagine, N.d.R.]. Ma, a mio avviso, non basta: per avviare infatti un vero processo inclusivo, il cambiamento deve avvenire dal basso, direttamente dai colleghi del lavoratore con disabilità. E me ne sono reso conto qualche settimana fa, partecipando a Firenze a un corso di formazione organizzato da Jobmetoo – la nota agenzia per il lavoro delle persone con disabilità, ideata e fondata da Daniele Regolo – presso la sede della GE Oil & Gas – Nuovo Pignone. In questa multinazionale, infatti, è stata attivata una rete di volontari, chiamata People with Disability Network, che fra le varie attività include anche i cosiddetti Disability Ambassadors (letteralmente “ambasciatori della disabilità”), presenti nei vari dipartimenti aziendali in modo piuttosto capillare, che si rendono disponibili ad ascoltare i colleghi con esperienza di disabilità diretta o indiretta, recependo le loro necessità e segnalandole nelle sedi opportune, e più in generale chiunque abbia proposte di iniziative o di miglioramenti a supporto delle persone che vivono esperienze con la disabilità.
È un impegno, quello dei volontari in GE Oil & Gas, che è fortemente radicato nella cultura dell’azienda e che abbraccia i vari tipi di diversità in ottica di piena inclusione: dalle diversità di genere, con la valorizzazione delle professionalità al femminile attraverso il Women’s Network, a quelle legate all’orientamento sessuale, con la fondazione e la partecipazione attiva a un gruppo a sostegno dei diritti delle persone LGBT [lesbiche, gay, bisessuali e trans gender, N.d.R.].
Va anche detto che di organismi di controllo di questo tipo se n’era parlato molto anche alla Conferenza Nazionale sulle Politiche della Disabilità, tenutasi anch’essa a Firenze, nel mese di settembre dello scorso anno.
Ebbene, in occasione del corso, mi sono trovato di fronte – ma è meglio dire in mezzo, visto che il tutto si è trasformato in una bellissima tavola rotonda – a una trentina di persone con ruoli molto differenti tra di loro all’interno dell’azienda, dal manager all’addetto alla produzione, spinte da curiosità e interesse umano. Metà di loro avevano già avuto un’esperienza personale o vissuto una disabilità, un’altra parte si era “imbattuta” temporaneamente o era venuta a contatto con questa condizione. Altri, invece, non ne avevano mai preso coscienza. Una ragazza di 30 anni ha infatti dichiarato: «Un giorno, quasi per caso, mi sono resa conto di non avere colleghi con disabilità… Poi ho indagato meglio e ho capito che la mia era solo una sensazione e che le persone con una disabilità sono molte e molto vicine a noi…».
Già, perché attorno alla disabilità esiste ancora una scarsa consapevolezza. Il non sapere come interfacciarsi con un disabile, spesso interpretato come indifferenza o egoismo, è invece legato al timore. Il non sapersi rapportare e la paura di sbagliare allontanano, rendono difficile il dialogo tra persone. E quindi, durante quel corso, è bastato aprire uno spiraglio in questo senso, per abbattere le barriere e iniziare un dialogo aperto e schietto. Sicuramente gli interlocutori erano persone interessate all’argomento, ma resto convinto che è attraverso di loro che passi il cambiamento, grazie a parole e gesti di valore da affiancare al lavoro più delicato del disability manager.