Oggi, 21 febbraio, è la Decima Giornata Nazionale del Braille, che celebra un evento istituito dalla Legge 126/07, con la quale il Parlamento italiano ha suggellato un atto di alto valore etico, sociale e culturale, dedicato al noto sistema di lettura e scrittura in rilievo, ideato dal francese Louis Braille, che consente anche ai non vedenti di leggere, scrivere, comunicare e fissare il proprio pensiero, oltreché di studiare, lavorare e integrarsi nel contesto sociale di appartenenza. Con la suddetta Legge, dunque, il nostro Paese, tra i primi nel mondo, ha riconosciuto l’importanza determinante di una scrittura dedicata, per una minoranza, altrimenti condannata irreparabilmente all’emarginazione.
La data del 21 febbraio, tra l’altro, non è stata scelta a caso: essa coincide infatti anche con la Giornata Internazionale della Lingua Madre, istituita nel 1999 dall’Unesco e riconosciuta dall’ONU nel 2007, per promuovere la diversità linguistica e culturale e il multilinguismo.
Louis Braille nacque a Coupvray, non lontano da Parigi, il 4 gennaio 1809. Il padre era un modesto artigiano che viveva fabbricando finimenti per cavalli. A 3 anni, giocando nel laboratorio paterno, il bambino si ferì gravemente a un occhio con una lesina e le premurose cure dei genitori non valsero a frenare l’infezione che rapidamente si estese anche all’altro occhio, portandolo, nel giro di un anno, alla cecità assoluta.
A 10 anni, Louis fu accolto nell’Istituto Reale per i Giovani Ciechi di Parigi (INJA – Institut National des Jeunes Aveugles), fondato da Valentin Haüy nel 1784. Il giovane Braille manifestò molto presto le sue straordinarie qualità, suscitando lo stupore degli insegnanti, soprattutto per la capacità di concentrazione.
In quel tempo, il piccolo mondo dell’Istituto fu emotivamente conquistato dall’invenzione di un ex ufficiale di artiglieria, Charles Barbier de La Serre, il quale aveva ideato un sistema di scrittura, chiamandolo “scrittura notturna”, costituito da punti in rilievo i quali, secondo lui, avrebbero consentito ai militari di leggere al buio, per non essere individuati dai nemici. Barbier pensò quindi di far testare la sua invenzione agli allievi dell’Istituto per i Ciechi di Parigi. Il sistema risultava piuttosto complesso e poco pratico, perché fondato su due colonne parallele di sei puntini ciascuna. E tuttavia, l’esperimento fu accolto con entusiastico interesse dai giovani allievi, alcuni dei quali (e tra essi Braille) iniziarono una corrispondenza con Barbier, utilizzando il suo laborioso metodo.
Rispetto ai numerosi tentativi precedenti per far leggere i ciechi, Barbier aveva introdotto una novità particolarmente significativa per chi avrebbe dovuto leggere con le dita: aveva sostituito i punti in rilievo al tratto continuo (ovviamente in rilievo), utilizzato da Valentin Haüy per stampare i primi volumi per i suoi alunni. A quel punto la speranza di poter trovare un modo per scrivere adatto ai ciechi e un’innata attitudine per la ricerca metodica condussero Braille, ancora adolescente, ad intuire il valore che avrebbe potuto assumere, per lui e per i suoi compagni, la disponibilità di un sistema di scrittura semplice e razionale.
Non sappiamo se altri, fra quei ragazzi, abbiano condiviso il desiderio di trovare la soluzione a un problema da loro ritenuto prioritario, o se Braille si sia dedicato alla ricerca solitaria, sostenuto unicamente dall’entusiasmo e dalla fede, tipici della sua età. Egli riconobbe per altro il suo debito verso Barbier de La Serre, ma va esclusivamente a lui il merito di essere riuscito ad ottenere risultati definitivi, dopo alcuni anni di studio tenace e sistematico sulla posizione convenzionale di punti impressi su cartoncino. Eravamo nel 1825, Braille aveva appena 16 anni e il suo sistema poteva dirsi virtualmente compiuto.
Nel 1829 pubblicò Procedimento per scrivere le parole, la musica e il canto corale per mezzo di punti in rilievo ad uso dei ciechi ed ideato per loro, opera con la quale fece conoscere la scrittura da lui inventata, che è quella ancora oggi utilizzata dai ciechi di tutto il mondo.
Durante tutta la vita, dovette lottare per fare accettare il suo sistema. Il direttore dell’Istituto parigino, Pierre-Armand Dufau, ordinò che i ciechi non si avvalessero del sistema ideato da Braille, ritenendolo una crittografia utilizzata unicamente dai suoi alunni per non fargli comprendere ciò che in segreto si sarebbero comunicati fra di loro.
Soltanto nel 1850 fu stampata la prima opera in Braille, fuori della Francia (nemo propheta in patria!). Il 27 settembre 1878, poi, al Congresso Universale per il Miglioramento della Sorte dei Ciechi e dei Sordomuti, tenutosi a Parigi in occasione dell’Esposizione Universale, vennero respinte tutte le perplessità e le incertezze e ci si pronunciò per l’adozione del Braille convenzionale con i sei punti originari. Seguirono quindi nel 1917 l’adozione del Braille originale pure negli Stati Uniti d’America, nel 1929 il riconoscimento internazionale della Notazione Musicale Braille e infine, nel 1949, su decisione dell’Unesco, l’uniformità dei vari alfabeti Braille, cosicché il sistema venne adottato nelle lingue arabe, in quelle orientali e nei dialetti africani, diventando così il metodo universale di lettura e di scrittura dei ciechi di tutto il mondo.
Louis Braille morì nel 1852. Nel 1887, a seguito di una sottoscrizione nazionale, venne eretto a Coupvray un monumento in suo onore. La sua casa natale accoglie ora il Museo Louis Braille, affidato alle cure della WBU, l’Unione Mondiale dei Ciechi.
Nel 1952, in occasione del primo centenario della morte, la Francia, rendendo finalmente onore al suo genio, ne accolse le spoglie mortali nel Pantheon di Parigi, tra i “grandi” della nazione.
Da ultimo, vanno ricordate due caratteristiche veramente straordinarie del Braille: il sistema risulta estremamente duttile e flessibile, tanto che, con i soliti sei punti e ricorrendo a piccoli accorgimenti, i ciechi hanno la possibilità di leggere e scrivere tutti i testi di loro interesse, sia nelle lingue antiche che in quelle moderne, nelle lingue slave, in arabo e in cinese (i ciechi cinesi, per scrivere in Braille, hanno sostituito gli ideogrammi con una scrittura fonetica).
Inoltre, lo stesso Braille, fin dalla prima edizione della sua opera, si preoccupò affinché fosse possibile scrivere la musica. In tal senso, al fine di evitare equivoci sulla natura del testo da leggere (le dieci cifre, ad esempio, corrispondono alle prime dieci lettere dell’alfabeto, così come sono scritte con segni, corrispondenti a lettere dell’alfabeto, anche le note musicali), si usano apposite chiavi di lettura, in modo che il lettore possa immediatamente comprendere se sta leggendo un testo letterario, matematico, musicale o altro.
E ancora, il Braille è risultato perfettamente adattabile anche all’informatica, tanto che gli otto punti utilizzati dal sistema binario hanno consentito di realizzare display braille con cui l’utente può avvalersi indifferentemente del Braille a otto o a sei punti.
Questa ulteriore possibilità di adattamento del sistema ha prodotto risultati di incalcolabile valore: i testi, infatti, possono essere agevolmente trasferiti da un qualsiasi computer al display braille e viceversa, possono essere memorizzati, immessi in una stampante, possono essere rielaborati, integrati, corretti innumerevoli volte, al fine di ridurre gli spazi notevoli e gli alti costi della carta richiesti dalla trascrizione in Braille.
E tuttavia, nonostante i molteplici benefìci recati alle persone minorate della vista dal sistema di lettura e scrittura Braille, ideato da uno di loro, appositamente per loro, ancora oggi molti manifestano una forte ostilità. Da numerosi genitori, ad esempio, il metodo è considerato emarginante e stigmatizzante, identificandone in qualche modo l’apprendimento con il riconoscimento definitivo della cecità del figlio.
Molte volte abbiamo poi sentito dire che «il Braille è superato e che non serve più». E paradossalmente lo dicono anche troppi insegnanti per il sostegno i quali – particolare tutt’altro che trascurabile – non solo non lo conoscono, pur dovendolo insegnare agli alunni affidati alle loro cure, ma rifiutano di impararlo, relegando i malcapitati bimbi alla condizione di “analfabeti strumentali”.
Occorre rispetto per il sentire di ognuno, ma noi abbiamo l’obbligo di far sapere che nel contesto sociale attuale l’analfabetismo crea enormi difficoltà. L’autentica emarginazione, infatti, deriva dall’impossibilità di risolvere i problemi, non già dagli strumenti con i quali i problemi stessi si risolvono.
Il Braille ha fatto uscire i ciechi dalla “preistoria”, consentendo loro di comunicare per iscritto e di partecipare attivamente alla vita culturale della società. Sarebbe impossibile, pertanto, pensare oggi alla formazione di una persona, anche con disabilità visiva, che non padroneggiasse con disinvoltura un proprio sistema di letto-scrittura.
Direttore scientifico dell’IRIFOR (Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione) dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti).
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