La morte del DJ Fabo [il giovane milanese tetraplegico e cieco in seguito a un incidente, che ha scelto il suicidio assistito in Svizzera, N.d.R.] è una sconfitta per tutti. Per la società civile e per la politica che ancora una volta non è riuscita a raccogliere un problema, quello del “fine vita”, che va analizzato nel suo complesso: dal diritto di cura, alla convivenza con la malattia, al morire bene e alla libertà di scelta.
Se non faremo lo sforzo di analizzare tutto il percorso di cura nelle gravissime disabilità, nell’autodeterminazione come nei casi di disturbi della coscienza dove entrano in campo legami familiari e affettivi, sino al fine vita, non riusciremo mai a definirci Paese civile che tutela tutti i cittadini, anche quelli più fragili.
Fabo non aveva più tempo di attesa, così come le tante persone con disabilità che chiedono cura e attenzione, di non avere tagli economici sui fondi per la loro assistenza, di essere annoverati quali “cittadini di serie A”, come tutti quanti dovremmo essere.
Non dimentichiamo le tante persone gravemente disabili che pur nel loro dolore e nel dramma della loro condizione hanno al loro fianco famiglie straordinarie che creano una rete comunitaria che avrebbe bisogno di un progetto politico a sostegno della loro azione. Questi problemi non possono essere rinchiusi dentro una famiglia, ma hanno bisogno di uno Stato/famiglia che se ne faccia carico.
E allora non si capisce bene perché si debba sempre guardare al “fine vita” come all’emergenza essenziale del nostro Paese e non invece come a quella parte finale di un percorso di vita che va tutelato, in tutte le sue condizioni.
Mi vengono in mente le parole di Mauro Giusti, persona gravemente disabile, autore del testo di una canzone musicata da Marco Spaggiari: «La strada è lunga, ma le persone che ho a fianco sono tante, sono loro che compongono passo dopo passo il mio percorso ed allora non è più importante se la strada comincia a salire perché a spingermi c’è sempre qualcuno…».