Lo scorso 10 marzo si è concluso presso le Commissioni Parlamentari Cultura e Affari Sociali il dibattito sullo Schema di Decreto per la promozione dell’inclusione scolastica (Atto del Governo n. 378). L’auspicio di chi scrive è che alle recenti belle parole di apertura e ai buoni propositi della ministra dell’Istruzione Fedeli seguano ora anche fatti concreti a favore della qualità del processo di inclusione degli alunni/studenti con disabilità del nostro Paese.
La domanda, però, che mi frulla in testa costantemente in questi giorni è la seguente: «Fino a che punto ha senso riformare il sostegno, se poi, come quasi sempre avviene in Italia, le nostre tante e innovative leggi (e quelle sull’inclusione scolastica ne sono una prova tangibile) non si traducono in buone prassi e non hanno una ricaduta concreta e positiva sull’intero sistema?».
A scanso di equivoci, voglio subito precisare che chi scrive è un convinto assertore e fautore della necessità di riformare l’attuale modello del sostegno italiano, come d’altronde ho più volte scritto anche sulle pagine di questo giornale. E tuttavia ho il timore che, stanti così le cose, dalla lettura approfondita che tutte le Associazioni di e per persone con disabilità abbiamo finora fatto del suddetto Atto del Governo n. 378, la tanto decantata Delega sull’inclusione della Legge 107/15 (cosiddetta La Buona Scuola) si riveli un semplice “topolino partorito dalla montagna”, ovvero una “leggina” assolutamente priva di una visione organica, strategica, “di sistema”.
Con tutto il rispetto per gli estensori di quel neonato Schema di Decreto, infatti, non mi pare che esso si prefigga il nobile scopo di debellare le attuali distorsioni del sistema inclusivo italiano e cioè l’insufficiente formazione generale e specifica dei docenti curricolari, di quelli per il sostegno e di tutto il personale scolastico sulle singole disabilità, la scarsa continuità didattica e, in particolare, la crescente delega al solo docente specializzato dell’allievo con disabilità, con la conseguente emarginazione di quest’ultimo nelle cosiddette “aule di sostegno”.
Ragionare ancora in termini di disabilità come legata indissolubilmente alla persona con disabilità e non ispirarsi alla sua nuova visione più dinamica, introdotta nel 2001 dall’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; continuare a parlare genericamente di «tutela del diritto allo studio» e non di diritto all’istruzione come «insopprimibile diritto umano» da garantire ad ogni cittadino, a prescindere dalla sua limitazione funzionale (come previsto dall’articolo 24 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità del 2006); e, soprattutto, considerare l’inclusione ancora come un mezzo per “mettere dentro” chi prima ne era escluso o che rischia l’esclusione e non invece come un ineludibile strumento per rendere il contesto finalmente accogliente e for all: sono queste, a parere di chi scrive, le più madornali e sesquipedali sviste e criticità dell’Atto di Governo n. 378.
Non serve modificare i nomi o inventarsene di nuovi, ogniqualvolta si vara una riforma della scuola. Quello che serve oggi, per assicurare un efficace ed efficiente modello di inclusione nel nostro Paese, è invece un radicale cambio di mentalità e di approccio, sì da comprendere una volta per tutte che non è il solo insegnante specializzato a garantire la qualità del sostegno, ma è la “scuola tutta”, un contesto davvero inclusivo, che può favorire il successo formativo di tutti e di ciascun alunno.
Da operatore della scuola che si è sempre battuto per un vero ed efficace processo di inclusione degli alunni/studenti con disabilità, sono stanco di sentire dire e “proclamare” anche nei più autorevoli convegni che la didattica inclusiva è un tema che concerne soltanto una particolare e determinata categoria di allievi (quelli con disabilità, appunto). Essa, al contrario, può e deve essere riferita più giustamente all’intera popolazione studentesca, a tutto il personale scolastico e, pertanto, al “contesto”, per poter dare risposte efficaci ed efficienti ai bisogni educativi di tutti e di ciascuno, nella normalità e finalmente senza alcun “sostegno”.
Riappropriamoci e ritroviamo dunque lo spirito più genuino e autentico della cultura dell’inclusione, così come brillantemente enunciata dalla Convenzione ONU (ratificata dal nostro Paese con la Legge 18/09), per rendere il contesto davvero “inclusivo” e per modificare i presupposti dell’intera nostra organizzazione scolastica.