Molti anni fa, ma molti molti, usai ironicamente la parola “paraplegicone”, senza neppure sapere cosa significasse, ma per dire che qualcuno era proprio assai impedito, lento. Ero un ragazzino. La civiltà avanza, la cultura pure, ma su un sentiero lievemente scostato. E i giovani faticano ancora a distinguere ciò che è divertente da ciò che è offensivo, a giudicare da una pagina Facebook che non voglio nominare.
Non sono più i tempi del “Mongolino d’oro”. I tristi fasti di quella locuzione in bocca a tutti sono trascorsi, ma non sepolti. Qualcuno lo usa ancora, ma chi usa un’espressione simile al giorno d’oggi, con la maggior coscienza che le persone con sindrome di Down non corrispondono a persone arbitrariamente incapaci, è una persona insulsa. Retrograda, ignorante e primitiva. Rivoltante, persino. Ho infilato una serie di epiteti senza citare alcuno stato di disabilità. Avrei potuto parlare di persona “cretina”, “mentecatta”, “idiota” e via dicendo, ma segnalare la pochezza di qualcuno si può fare anche senza citare alcuna disabilità.
Deficiente è offensivo. Ma se esprimo il concetto di possesso di un deficit didattico, senza alcun riferimento a coloro che nei decenni passati venivano indicati come “deficienti” per il loro disagio mentale, non sono poi così in errore. Il termine deficiente, perciò, resta offensivo se associato al disprezzo, al sopruso, verso la persona che soffre una condizione di disagio mentale. Ma se, con la giusta dose di tecnicismo lessicale, lo si usa in luogo di una mancanza, di un vulnus formativo, allora non c’è fallo.
“Deficiente” è una parola difficile da maneggiare. Come la dinamite è meglio che la manipolino i tecnici.
Ci sono termini che si rifanno alla disabilità che oramai sono entrati nell’uso: “scemo”, “idiota”, “cretino”… Sono termini che un tempo definivano lo stato di malattia, mentale, di una persona. Significativo è il caso di scemo. Scorrendo le definizioni del Vocabolario Treccani, ci imbattiamo in radici antichissime, con riferimenti a Boccaccio e a Dante.
In principio “scemo” era sinonimo di “mancante”, “non pieno”. E infatti l’etimologia riporta a scemare, cioè a calare. Di per sé, dunque, dare dello scemo a qualcuno, saltando qualche centinaio d’anni di storia e rifacendosi alla natura propria della parola, non è sbagliato. È come se si dicesse che quella persona manca di senno. Ma quanti di noi usano questo termine con la giusta coscienza?
La scemenza cui ci riferiamo volgarmente è quella delle persone con un problema mentale. Quelle che soprattutto nell’Ottocento erano chiamate così. Tanto che dopo la prima guerra mondiale arrivammo ad avere gli “scemi di guerra”. Forse è una locuzione che non si usa più, ma fino a non troppo tempo fa era d’uso dire: «Ma che sei, uno scemo di guerra?». Non si sapeva bene cosa volesse dire, ma si usava per dire che uno era scemo, ma proprio scemo. E si ignorava quanto dolore ci fosse attorno a quel termine, che menzionava i reduci delle trincee che avevano compromesso le loro facoltà mentali e relazionali a causa dell’orrore della guerra.
Quanta fragilità dietro questa locuzione! E ad altre etichette affini di cui, prima dell’uso, sarebbero utili un approfondimento storico e un’assimilazione morale.
C’è un dolore dietro certe definizioni che la storia ha eclissato. Nel prevalere dell’uso sulla forma, queste modalità espressive hanno perso la loro drammaticità, ma sarebbe il caso, io penso, di non usarle. O di farlo – noi dediti alla parolaccia per colorire la grammatica – cercando prima di tutto di non essere offensivi, semmai ironici, bonari, e contemporaneamente consapevoli.
C’è poi tutta una serie di termini come “mentecatto”, “decerebrato”, “cerebroleso” e compagnia bella che fanno paura. Sono termini sbagliati, oltre che offensivi, se usati fuori contesto.
Un cerebroleso non è per forza una persona che non capisce nulla, anche perché ha una disabilità fisica, non mentale (di lesione si tratta, infatti). Un mentecatto, parola assai diffusa anche in medicina un paio di secoli fa, è una persona con un disagio sulla quale non c’è niente da ridere. Alla larga, dunque, dall’uso di questi termini fuori dal gergo tecnico.
Dice Claudio Arrigoni, uno dei fondatori del blog InVisibili del «Corriere della Sera.it», “firma” spesso presente anche sulle pagine di «Superando.it»: «Offendere su una condizione di vita rendendola ridicola senza neanche conoscerla minimamente, mostra insensibilità e mancanza di rispetto».
La pazzia meriterebbe una trattazione a sé. Dare del “pazzo” in senso dispregiativo è sbagliato. In senso ironico dipende: pazzia e follia si intrecciano da millenni, quindi se per la prima si intende la seconda può andare bene così.
Sempre con l’aiuto di Claudio Arrigoni, sull’onda dell’evoluzione linguistica, arrivo a parlare di una pagina Facebook che non oso nominare per non promuoverla. È un luogo dove i giovani esprimono liberamente i loro pensieri sul tutto, ovvero su loro stessi, in maniera scanzonata. Idea divertente, tanto da spingere i media a parlarne. Tuttavia il titolo della pagina è osceno. Dai miei tempi ad oggi poco è cambiato, sembra. Pensavo di no.
Arrigoni dice che «è sintomo di una società alla deriva, dove non importa se si colpisce il debole e non ci si rende conto del male e della sofferenza che questo comporta. Il tutto amplificato dai social, che permettono tutto e il contrario di tutto, senza alcun senso di responsabilità, sociale e individuale. L’unico rimedio è continuare a impegnarsi per cambiare questa cultura, mostrando che una società diversa, meno leggera e più responsabile, può e deve esistere».
E mentre la lingua si modifica sotto l’auspicata vigilanza dello stesso Arrigoni,, se proprio dobbiamo indicare la faciloneria di qualcuno diamo un morso al vocabolario. Ci resteranno in bocca termini come “sciocco”, “beota”, “inetto”, “stupido”, “ottuso”, “imbranato”, “pasticcione”… Con tutta la sana etimologia delle origini della lingua. E naturalmente il massimo rispetto per i beoti!