Secondo i risultati di una recente indagine comparativa internazionale svolta dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), nell’àmbito del PISA (Programme for International Student Assessment, ovvero “Programma per la valutazione internazionale dell’allievo”), la scuola italiana vincerebbe il confronto tra i ventuno Paesi oggetto della ricerca, relativamente al livello di equità dei diversi sistemi educativi: in altre parole, la nostra scuola funzionerebbe meglio delle altre, in particolare per quanto riguarda l’inclusione dei ragazzi delle scuole superiori provenienti da famiglie con una condizione socialmente svantaggiata. Immediati, in tal senso, sono stati i commenti positivi dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e della ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, e perfino quelli delle opposizioni.
Questo riconoscimento, dunque, e anche quello tributato lo scorso anno per la nostra «avanzata ed esemplare legislazione inclusiva» dall’iniziativa internazionale Zero Project, di cui si è scritto anche su queste pagine, sembrerebbero suggerirci che tutto sia perfetto. E invece nell’Italia reale in cui noi persone con disabilità viviamo, le nostre belle Leggi sono spesso eluse e ignorate e il processo di inclusione pare ancora lontano dall’essere realizzato. Tant’è vero che, a proposito di inclusione scolastica, gli esperti dell’ONU, incaricati di esaminare il primo Rapporto Ufficiale italiano sull’attuazione della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, hanno scritto lo scorso anno, nelle loro Osservazioni Conclusive, che «è necessario ancora fare un cambio di paradigma, in modo che le persone con disabilità siano considerate come persone uguali nella società e non un peso o qualcuno che drena risorse del welfare state».
Tutto ciò, soprattutto in riferimento al “lusinghiero” risultato della ricerca OCSE-PISA, mi fa sorgere spontanea una triste domanda: «Ma di quale scuola hanno esaminato il livello di inclusione i ricercatori dell’OCSE? Di quella italiana o di quella del “Paese dei Balocchi”?».
Oggi gli alunni/studenti con disabilità che frequentano la scuola italiana sono circa 235.000 (il 40% in più rispetto al 2001, la stragrande maggioranza dei quali con disabilità intellettiva) e l’esperienza di questi ultimi quarant’anni, le testimonianze dirette dei genitori dei nostri ragazzi e nostre ricerche scientifiche evidenziano numerose lacune dell’attuale modello, dalla scarsa formazione specifica dei docenti specializzati, all’inadeguata formazione generalizzata di tutto il personale scolastico sulle tematiche relative alla didattica inclusiva e alla pedagogia speciale. Questi ultimi, oggi, sono 120.000, ovvero uno ogni due alunni con disabilità, e circa il 40% di essi non è abilitato e ha incarichi precari cosiddetti “in deroga”. A causa infatti di aberranti cicliche Circolari Ministeriali – che rispondono solo a logiche corporative e non certo ai reali bisogni educativi dei ragazzi con disabilità – in questi anni è stata data la possibilità, in caso di esaurimento delle graduatorie dei docenti specializzati, di coprire i posti sul sostegno ad insegnanti non abilitati iscritti nelle “graduatorie di Circolo e di Istituto”, o a quelli di “classi di concorso in esubero” o ancora “in assegnazione provvisoria”.
Come si può facilmente comprendere, ciò non depone certo a favore della qualità del processo inclusivo, costringendo regolarmente l’8% (scuola primaria) e il 5% (scuola secondaria) delle famiglie italiane a ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere i propri diritti.
Per non parlare, naturalmente, della pericolosa china del nostro modello di inclusione scolastica verso il perverso meccanismo della delega al solo docente di sostegno, considerato ormai erroneamente come l’unica risorsa a disposizione dell’alunno con disabilità, a prescindere dalle sue competenze specifiche. Un meccanismo, questo, che, a parere di chi scrive, è segnatamente dovuto soprattutto all’inadeguatezza e all’insufficienza del “contesto”, cosicché, in mancanza di altri tipi di sostegno e di servizi alternativi di supporto, il Ministero ha dato centralità al solo docente di sostegno, quale garante del processo di inclusione, senza però averne migliorato la qualità.
E tuttavia, la quotidiana pratica didattica ci dice che l’equazione «più ore di sostegno = più qualità dell’inclusione» non funziona affatto, come viene dimostrato dai dati in nostro possesso che confermano un aumento delle ore medie settimanali del sostegno didattico dalle 15 degli scorsi decenni alle attuali 17,7 (più ulteriori 10 ore assegnate dagli Enti Locali agli “assistenti”), senza che ciò abbia cambiato di fatto la situazione.
Tenendo conto infine che lo stipendio medio di un docente di sostegno si aggira intorno a 1.650 euro mensili, conti alla mano lo Stato italiano spende per il sostegno circa 2 miliardi e mezzo di euro all’anno. Con queste cifre, ci si aspetterebbe francamente molto di più!
È questo, dunque, il livello di «eccellente inclusività» della scuola italiana, decantato dall’indagine OCSE-PISA di cui sopra?
La cosa più deludente, poi, è che purtroppo neppure la tanto celebrata nuova riforma del sostegno e dell’inclusione, approvata recentemente dal Consiglio dei Ministri, muterà tale stato di cose, con buona pace di un proficuo processo di inclusione degli alunni italiani con disabilità.