«In quali àmbiti, in base alla tua esperienza, essere una donna disabile rappresenta uno svantaggio maggiore?»: ho rivolto questa domanda a Maria Pezzente, giovane donna con una disabilità motoria importante, che incide anche a livello di linguaggio. La sua risposta: «Mi sono posta diverse volte anch’io la domanda “e se fossi stata un uomo, la mia vita sarebbe stata diversa?” Sinceramente non lo so. Ci sono mille fattori che possono incidere sul corso della propria vita. Se non ci fosse stato il problema alla nascita, non sarei disabile, ma non saprei dire se la mia esistenza sarebbe stata migliore. Forse no. È indubbio che il problema della discriminazione di genere esista nel nostro Paese. Ne abbiamo la riprova ogni giorno. È un fatto di cultura e forma mentis. Forse, se io fossi stata un uomo, avrei avuto un partner e magari dei figli, perché per una donna è più “facile” andare al di là dalle apparenze. Difficoltà oggettive dovute a un retaggio culturale ci sono in ogni àmbito, ma, secondo me, molto dipende dalle persone e dalle circostanze della vita. In fondo sono contenta di essere una donna».
Tra le donne con disabilità la percezione della discriminazione legata al genere è abbastanza diffusa (anche se non sistematica), come pure quella legata alla disabilità, ciò che è meno consueto è trovare donne disabili (o, più genericamente, persone disabili) che nel riflettere su questi temi considerino anche l’intersezione tra queste due variabili. Infatti, molte persone con disabilità (anche donne) hanno riguardo alle questioni di genere, lo stesso atteggiamento che molte persone non disabili hanno riguardo alle problematiche della disabilità: pensano che sia una questione di sensibilità e di “politicamente corretto”, e non di diritti.
Tale è, ad esempio, l’atteggiamento dell’Associazione di volontariato che organizza corsi di progettazione accessibile per architetti e progettisti, occupandosi – quando va bene – delle esigenze connesse alle diverse disabilità (e non solo di quella su cui l’Associazione ha incentrato la propria mission), ma quasi mai di considerare che gli uomini e le donne con disabilità – proprio come gli uomini e le donne senza disabilità – fruiscono di spazi e hanno stili di vita spesso molto diversi.
L’abitudine a non attribuire alcuna rilevanza al genere quando si parla di progettazione accessibile è talmente radicata che – anche nei rari e preziosi casi di progetti centrati proprio sul genere e la disabilità – è difficile far capire alle Associazioni di persone con disabilità (e non solo a loro) perché le destinatarie del progetto siano proprio le donne con disabilità, e non genericamente le persone disabili (se ne legga a tal proposito, su queste stesse pagine).
Potremmo osservare che nei Direttivi delle Associazioni di volontariato che operano nel settore della disabilità le donne sono sottorappresentate, ma è pur vero che anche quelle presenti difficilmente pongono la questione. Come mai? In prevalenza perché non sono abituate ad osservare tutta la realtà da una prospettiva di genere, ma anche perché, come accennato, tendono a separare le problematiche: se si parla di questioni femminili “si pongono come donne”, se si parla di accessibilità “si pongono come disabili”. Che l’accessibilità, invece, debba essere declinata anche al femminile è ancora un’idea inconsueta, complicata, difficile da afferrare, per non dire balzana. Eppure la discriminazione multipla cui sono soggette le donne con disabilità può essere colta (e contrastata) solo considerando simultaneamente sia il genere, che la disabilità.
Ci sono àmbiti in cui, anche nella disabilità, il tema del genere si pone con maggiore evidenza. In questi casi è più facile sincronizzare le due variabili. Pensiamo ad esempio alla sfaccettata riflessione sulla maternità delle donne con disabilità, oppure alle sfilate di modelle con disabilità. Ma anche qui non sempre fila tutto liscio. Riscuote molta attenzione (e altrettanta adesione), da parte delle donne con disabilità il tema dell’accesso ai servizi di ginecologia e ostetricia. Le donne con disabilità sono in primo luogo donne, e il fatto che i servizi di ginecologia e ostetricia accessibili anche alle donne con disabilità presenti nel nostro Paese siano veramente rari, rende plastica la distanza tra loro e le altre donne (se ne legga ampiamente, sempre su queste pagine). Eppure loro subiscono una discriminazione addizionale anche rispetto ai servizi sanitari non “propriamente femminili”, e non solo riguardo all’accessibilità ai servizi in questione.
Osserva Marina Viora, laureata in Scienze Biologiche e primo ricercatore presso l’Istituto Superiore di Sanità, che «la ricerca biomedica ha dimostrato che gli uomini e le donne, pur essendo soggetti alle medesime patologie, presentano significative differenze riguardo la suscettibilità, l’incidenza, la sintomatologia, la prognosi, la progressione e la risposta alla terapia, nonché riguardo la percezione personale e sociale e le strategie di adattamento allo stato di salute/malattia»; ma, nonostante ciò, le donne sono state sottostimate negli studi epidemiologici, nelle sperimentazioni farmacologiche e negli studi clinici: «La maggior parte della ricerca preclinica e clinica è stata condotta sugli uomini e i risultati ottenuti sono stati traslati e applicati alle donne come se fossero dei “piccoli uomini”» (Marina Viora, Se donne e uomini si ammalano diversamente, in «inGenere», 12 aprile 2007).
Per comprendere meglio le conseguenze pratiche di questo atteggiamento, possiamo osservare come la circostanza che il dosaggio dei farmaci nella sperimentazione clinica sia prevalentemente definito su soggetti di sesso maschile non consenta di conoscere con precisione quale sia la risposta alle terapie nelle donne, poiché queste hanno solitamente parametri fisiologici (peso, quantità di acqua, Ph gastrico ecc.) diversi da quelli degli uomini, e tali parametri incidono sull’assorbimento e sull’azione dei farmaci stessi nell’organismo umano.
A questa situazione cerca di porre rimedio la cosiddetta “medicina di genere” che, va sottolineato, non è circoscritta alle patologie femminili (quelle, per intenderci, che interessano il seno e l’apparato riproduttivo femminile), ma si occupa delle malattie comuni a uomini e donne, include negli studi anche la variabile del genere, ed è finalizzata alla personalizzazione delle terapie.
Tornando alla nostra riflessione, se le donne con disabilità, giustamente, manifestano il proprio orgoglio femminile chiedendo l’accesso ai servizi di Ginecologia e Ostetricia, lo stesso orgoglio femminile dovrebbe spingerle a chiedere contestualmente l’appropriatezza delle cure anche in relazione alle altre malattie, quelle comuni anche agli uomini – oltre, ovviamente, all’accessibilità di tutti i servizi sanitari -, ma anche su questo fronte sembra prevalere la scarsa abitudine a riflettere in termini di genere, e la tendenza a tenere distinte le problematiche femminili da quelle della disabilità.
Particolarmente emblematico, sotto il profilo della discriminazione di genere, è quanto sta accadendo nel nostro Paese in tema di sessualità e disabilità, dove, negli ultimi anni, il dibattito pubblico è stato quasi completamente schiacciato sulla Proposta di Legge per il riconoscimento della figura dell’assistente sessuale (si legga, ad esempio, Andrea Pancaldi, La disabilità, il dibattito sull’assistente sessuale e oltre, in «Superando.it», 16 ottobre 2014 e anche Lelio Bizzarri, Si può davvero parlare di sessualità negata?, in «Superando.it», 7 aprile 2017).
In quale misura, all’interno di questo dibattito si è tenuto conto della prospettiva delle donne con disabilità? Stando a una ricerca curata da Andrea Pancaldi, giornalista, documentalista e responsabile della redazione sociale del Dipartimento Benessere di Comunità del Comune di Bologna, in riferimento al periodo 1° maggio 2014-11 marzo 2017 (quindi un arco di tempo di quasi tre anni), in Italia sono stati realizzati 49 eventi formativi (convegni, corsi, seminari) sul tema in questione, dei quali un solo corso è stato dedicato espressamente a un gruppo di donne con disabilità, e una sola relazione nell’àmbito di un convegno ha affrontato la prospettiva di genere (Andrea Pancaldi, Disabilità e assistenza sessuale: a che punto sta il dibattito?, in «Superando.it», 29 marzo 2017).
L’“assistente sessuale” può essere una risposta alle esigenze delle donne con disabilità in materia di sessualità? Sicuramente qualche donna con disabilità che si adatta a questo tipo di risposta è possibile trovarla, ma la letteratura sul tema è concorde nel ritenere che questa figura sia centrata su una domanda prevalentemente maschile*. In sostanza, chi sta portando avanti questa rivendicazione ha intercettato il desiderio di qualche uomo con disabilità, e ha ritenuto che per non discriminare le donne fosse sufficiente offrire anche a loro questo tipo di servizio, senza preoccuparsi di chiedere alle stesse donne con disabilità quali fossero i loro desideri. Se lo avesse fatto, avrebbe capito che in questo àmbito le richieste femminili sono abbastanza diverse.
Il Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea (adottato dall’Assemblea Generale dell’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, nel 2011) dedica ai diritti sessuali e riproduttivi un intero capitolo (il capitolo 8), rilevando come la società in generale, e in particolare i familiari, abbiano considerato le donne con disabilità come asessuate, inadatte a vivere con un partner e ad essere madri, e le abbiano sottoposte a un controllo rigoroso e repressivo dei loro bisogni sessuali [della traduzione italiana di tale documento, curata da Simona Lancioni e Mara Ruele, si legga anche nel nostro giornale, N.d.R.]. Ciò rende necessario realizzare seminari di formazione sui diritti sessuali e riproduttivi delle donne e delle ragazze con disabilità, sia per loro, che per le loro famiglie.
Si legge ancora nel Manifesto: «La conseguenza del limitato accesso e controllo che le adolescenti e le donne con disabilità hanno della propria sessualità, è che esse diventano vulnerabili allo sfruttamento sessuale, alla violenza, alle gravidanze indesiderate e alle malattie sessualmente trasmissibili. Le ragazze, le adolescenti e le donne con disabilità chiedono l’accesso all’educazione affettiva e sessuale per vivere una vita sana. Esperti del settore, quali educatori dei servizi sociali pubblici locali, dovrebbero portare queste donne ad un livello di conoscenza tale che le renda consapevoli del funzionamento del proprio corpo (come si rimane incinta e come si evita di rimanerci, come avere una relazione sessuale più comunicativa e piacevole, come dire di no alle cose che non si vogliono fare, come evitare le malattie sessualmente trasmissibili, e così via)» (punto 8.4, pagine 36-37).
Di queste esigenze – in larga misura diverse da quelle maschili e non riconducibili a queste ultime – nell’unica Proposta di Legge depositata in tema di sessualità e disabilità non vi è alcuna traccia, nonostante la Convenzione ONU sui diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge dello Stato 18/09) annoveri «la parità tra uomini e donne» tra i suoi principi generali (articolo 3, lettera g).
Ma la variabile del genere incide in ugual modo in tutti gli àmbiti della vita, o ve ne sono alcuni che richiedono maggiore attenzione? Ana Peláez Narváez, presidente del Comitato delle Donne del Forum Europeo sulla Disabilità, nell’introduzione al già citato Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea, rileva che «i pochi studi effettuati sinora nel campo della disabilità suggeriscono che la salute, la violenza, l’abuso ed i diritti sessuali e riproduttivi, tra gli altri, sono le aree che dovrebbero essere trattate separatamente e dovrebbero prendere in considerazione le rispettive esigenze e richieste espresse da uomini e donne» (pagina 13 del Manifesto, grassetti nostri nella citazione).
Per trovare qualche indicazione specifica sulla situazione italiana, invece, possiamo fare riferimento alle Osservazioni Conclusive al primo Rapporto Ufficiale dell’Italia sull’attuazione dei princìpi e delle disposizioni contenute nella Convenzione ONU, Osservazioni elaborate dal Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità nel 2016.
Il Comitato, dopo avere espresso preoccupazione per la mancanza nel nostro Paese di una sistematica integrazione delle donne e delle ragazze con disabilità nelle iniziative per la parità di genere, così come in quelle riguardanti la condizione di disabilità, e dopo aver raccomandato un’inversione di rotta al riguardo (punti 13 e 14), ha rilevato che le donne con disabilità italiane sono maggiormente discriminate nelle campagne di comunicazione di massa, nella violenza contro le donne, nella mancanza di accessibilità fisica e delle informazioni relative ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva, e a livello occupazionale.
Quali conseguenze comporta dunque non considerare la variabile del genere nell’approccio alla disabilità? Comporta che le esigenze specifiche delle donne con disabilità – non essendo espresse e rilevate – ben difficilmente troveranno una risposta.
Comporta anche che la discriminazione multipla che scaturisce dall’intersezione del genere con la disabilità rimarrà inalterata, e non potremmo dire di non avere avuto un ruolo nella realizzazione di questo scenario.
Per tutti questi motivi è importante imparare a prestare attenzione alle interazioni tra il genere e la disabilità, e continuare a farlo sino a quando l’accostamento diventerà spontaneo come associare un cielo terso a una bella giornata, il miele alle api, il fischio di un treno all’idea di viaggio.
*Brunella Casalini, professore associato del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze, scrive in proposito: «La paura di una parte del femminismo è che l’assistente sessuale finisca per essere un’altra figura femminile votata al dono di sé e sfruttata in vista della soddisfazione del piacere maschile. Una paura comprensibile, che non può essere sottovalutata vista la difficoltà che la società continua ad avere ad accettare e a non giudicare negativamente il fatto che una donna, ancor più se disabile, possa avere desideri sessuali e una vita sessuale attiva, al di fuori di una relazione stabile. Nei Paesi dove la prostituzione è riconosciuta come lavoro, esistono sia assistenti sessuali donne che assistenti sessuali maschi che esercitano con donne e con uomini, indipendentemente dal loro orientamento sessuale; tuttavia, è vero che la domanda continua ad essere prevalentemente maschile» (Brunella Casalini, Disabilità, immaginazione e cittadinanza sessuale, in «Etica e politica», n. 2, 2013, pagina 308).