Presentato a Roma nei giorni scorsi, il 25° Rapporto Annuale dell’ISTAT sulla situazione del Paese ha voluto affrontare il tema delle disuguaglianze adottando un approccio sperimentale basato sull’applicazione di una specifica metodologia statistica, che ha portato alla profilazione di nove diversi gruppi sociali, all’interno dei quali sono state ricondotte le famiglie residenti in Italia.
Tali gruppi sono il risultato di un’elaborazione che ha preso in considerazione molteplici dimensioni, impiegate con differenti modalità, di natura economica (reddito, condizione occupazionale), culturale (titolo di studio) e sociale (cittadinanza, dimensione della famiglia, tipologia del comune di residenza).
L’intento è stato quello di superare una segmentazione puramente economico-occupazionale nell’analisi delle disuguaglianze, tenendo conto di ulteriori aspetti contestuali che possono esercitare un’influenza sulla partecipazione alla vita sociale, e quindi sul rischio di esclusione.
A partire da quei gruppi – omogenei al loro interno per livello di reddito familiare equivalente, ma diversi tra loro per la differente combinazione con cui si presentano le altre variabili considerate – l’ISTAT ha potuto quindi tracciare i profili e le dinamiche di comportamento delle famiglie in Italia.
In questa prospettiva – pur interessante – appare oltremodo significativa la scarsità di dati statistici inerenti la condizione di disabilità. Sappiamo che la presenza in famiglia di uno o più componenti con disabilità costituisce uno dei primi fattori di impoverimento. Appare infatti evidente che essa condiziona la possibilità di produrre reddito, sia per la difficoltà di accesso diretto al mondo del lavoro, sia per l’insufficienza del nostro sistema di welfare che delega alle famiglie, e soprattutto alle donne, il lavoro di cura, con conseguenze significative sulla possibilità di accedere o mantenere un’occupazione. È pure ben nota la limitata capacità di queste famiglie di poter convertire il reddito disponibile in soddisfazione dei propri bisogni e desideri, in benessere e qualità della vita. Conosciamo, ad esempio, gli ostacoli che le persone con limitazioni sensoriali incontrano nell’accesso al lavoro, alla cultura, alla mobilità.
Eppure mancano dati statistici sistematici al riguardo, talché si può dire a buona ragione che la condizione di disabilità non sia affatto entrata nell’analisi delle disuguaglianze elaborata nel 25° Rapporto Annuale ISTAT, non permettendo, quindi, di avere ancora esatta contezza di quanto la disabilità incida nello scenario delineato e nel generare esclusione sociale.
Si fa riferimento, nel Rapporto, all’età, allo stato di salute, alla cronicità e alla comorbilità, agli stili di vita dannosi per la salute e alla prevenzione. Si evidenzia che la partecipazione culturale è condizionata dall’accessibilità fisica ed economica a beni e servizi, oltreché dai livelli di istruzione e dal gusto personale. E si sottolinea che tra i diversi gruppi sociali si rileva una polarizzazione tra chi può godere di maggiori risorse, opportunità e abilità (cui corrispondono consumi culturali più elevati ed eterogenei) e chi risulta più svantaggiato. E tuttavia non vi sono riscontri qualitativi e quantitativi sulle condizioni di vita delle persone con disabilità.
Continuiamo infatti a ignorare dove si collochino le persone con disabilità all’interno di questi raggruppamenti. Tanto più che – se è vero che esiste una correlazione tra la disabilità e l’età – non possiamo nemmeno equiparare la condizione di disabilità con la rilevazione dello stato di salute, essendo la disabilità non una caratteristica soggettiva della persona, ma il frutto dell’interazione tra una persone con menomazioni durature e il contesto ambientale e comportamentale all’interno del quale si trova a vivere.
In Italia, come evidenziato più volte dallo stesso ISTAT, manca un’anagrafe delle persone con disabilità e non esiste nemmeno una fotografia degli ostacoli che le persone affrontano quotidianamente. Non conosciamo, ad esempio, il tasso di disoccupazione delle persone con disabilità. Non abbiamo dati aggiornati sull’incidenza della povertà e della deprivazione materiale nelle famiglie con all’interno una persona con disabilità. Non sappiamo quanti giovani NEET (non impegnati nello studio, né nel lavoro, né nella formazione) siano giovani con disabilità. Con tutto ciò che questo comporta nell’elaborazione di politiche e servizi mirati e congruenti.
Di certo, quindi, il quadro delle diseguaglianze tratteggiato da questo Rapporto è parziale, non considerando uno degli elementi centrali di tale fenomeno.
Da tempo si evidenzia la necessità di disporre almeno di un’anagrafe delle persone che hanno ricevuto una certificazione dalle commissioni pubbliche preposte all’accertamento degli stati invalidanti o della disabilità, su cui l’ISTAT e l’INPS hanno già avviato uno studio di fattibilità, di cui al momento non conosciamo i tempi di realizzazione.
Per effettuare infatti qualunque indagine volta ad esplorare le condizioni di vita delle persone con disabilità – in questo caso almeno nell’accezione delle persone che hanno ricevuto una certificazione -, è necessario definire l’universo di riferimento. Ed è quindi ormai improcrastinabile procedere alla ricostruzione dei dati di natura amministrativa di diversa derivazione.
A questo punto è quasi superfluo rammentare che la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, divenuta Legge dello Stato ormai da otto anni (Legge 18/09), dedica un articolo specifico (il 31°) a Statistiche e raccolta dei dati, in cui gli Stati si impegnano a raccogliere le informazioni appropriate per formulare e attuare politiche inclusive. Senza la disponibilità di dati, opportunamente disaggregati e resi pubblici, non è infatti possibile conoscere e programmare, ma nemmeno valutare il livello di applicazione della stessa Convenzione ONU e lo stato di rimozione delle barriere che impediscono alle persone con disabilità l’esercizio dei propri diritti.