Lasciatemi sfatare un piccolo grande mito, resistente a tutto e a tutti, sulle persone con disabilità disabili e sulle loro famiglie. Posso farlo, come familiare di un disabile e disabile io stessa: non è vero che non ci sia differenza, nella disabilità, tra famosi o meno, tra ricchi e poveri, tra “gente che conta”, per un qualunque motivo, e gente che “conta meno”. Forse sarebbe così in un mondo perfetto, ma in questo, contare o meno, avere o meno “beni in paradiso”, fa la differenza eccome.
Perché dico questo? Perché chi “conta”, a volte, semplicemente se lo dimentica. E scrive come se davvero fosse, la sua vita, uguale a quella dei “comuni mortali”, di noi comuni mortali. Ma se l’amore, la sofferenza, la preoccupazione possono davvero essere uguali (perché un genitore non è meno coinvolto con il figlio o la figlia, che sia un giornalista famoso come Gianluca Nicoletti o una persona come me), non è così, invece, per le risorse e dunque le possibilità che si aprono davanti.
Ignorare questo semplice fatto, come ignorare che rimanere una coppia non è uguale alla situazione di un genitore che, per forza di cose e malgrado la propria volontà, rimane single, significa costruire il proprio ragionamento su basi completamente sbagliate.
Quando ho letto nei giorni scorsi l’articolo sulla «Stampa» (Tommy orfano. Quanta angoscia pensare al futuro) del citato Gianluca Nicoletti sul figlio, la prima cosa che ho pensato è: perché non riesce a mettersi nei panni altrui? Perché, prima di parlare, non ascolta tutti, senza decidere in maniera pregiudiziale a chi dare ragione o torto?
Nessuno vuole lasciare i figli «strambi» in un istituto, come ha scritto su queste stesse pagine Gianfranco Vitale, ma chi non ha tutte le possibilità di Nicoletti o ha altre situazioni familiari, deve farlo.
Il genitore single – perché divorzia o semplicemente perché rimane solo – non sempre ha la forza e i mezzi per tenere il figlio in casa, e con grande dolore deve fare ciò che è meglio per lui, non potendo purtroppo contare sempre su un adeguato controllo sociale. In alcuni casi, poi, è il figlio stesso che non riesce a rimanere nella comunità familiare e che ha bisogno di un altro ambiente in cui strutturarsi, perché, molto semplicemente, non vuole e non può rimanere “figlio a vita”.
I figli con problemi, con condizioni particolari, con disabilità, non sono meno membri della società e non hanno meno diritto a trovare nella stessa – e non solo nella famiglia – il loro ruolo e la loro strada. Criticare i genitori che domandano alla società di rispettare il proprio ruolo di tutela delle classi deboli, prendendosi carico dei suoi cittadini particolari, significa non saper guardare il mondo al di là di se stessi.
Attualmente sono madre di un ragazzo di quasi vent’anni, e mio figlio è in casa. Fa ancora la scuola e, per il momento, malgrado anch’io abbia dei problemi, cela caviamo ancora, tra me, mio marito e alcuni aiuti che con sacrificio riusciamo a racimolare, oltre a quelli “statali”. Ma sarà così un domani? Non posso saperlo, Giovanni a 40 anni avrà una mamma di quasi 73, un padre di quasi 78. E questo proiettando il tutto in là di vent’anni, mentre le cose potrebbero cambiare tra dieci o anche meno.
Quando quel momento verrà, non vorrò avere la condanna di un uomo che, per suo merito di certo, avendo il potere di aiutarmi, mi dà invece la croce addosso. Quando quel momento verrà, non potrà essere una soluzione fare star male mio figlio, perché, per un motivo o per l’altro, non riuscirò più ad aiutarlo.
No, chi ha il potere di andare in televisione, sui grandi giornali, deve farlo per aiutare tutti, riconoscendo che siamo diversi e che si deve ascoltare senza giudicare.
Bisogna chiedere a gran voce che gli istituti diventino case-famiglia, piccole e controllate, con programmi chiari e l’assunzione di personale adeguato, formato e pagato in maniera consona. E tutti noi stiamo aspettando questo, soprattutto quei padri e quelle madri che battagliano fuori dalle Istituzioni, al fianco del figlio, che sia o meno in casa.
Non si smette di essere genitori perché il figlio va in istituto, ma si rimane svegli la notte, per preparare articoli e interventi che aiutino quello stesso istituto a diventare davvero la casa di quel figlio. O a tirare tardi la notte, per capire quale sia la strada migliore, in mezzo all’indifferenza assoluta del suo Paese ovvero di chi dovrebbe farsi carico, con lui, di quella Persona.
Un mondo, tanti mondi, e una sola battaglia: quella per la dignità dei nostri parenti, sia “durante”, sia “dopo di noi”. Senza dubitare mai che chi usa un mezzo diverso dal nostro abbia a cuore lo stesso grande obiettivo: un mondo migliore per tutti, non solo per alcuni.