Come rispondere alle “cose da non chiedere”?

«In quel programma – scrive Antonio Giuseppe Malafarina, a proposito del format televisivo di Real Time “Cose da non chiedere”, andato in onda una decina di giorni fa – l’aspetto della centralità della persona rispetto alla disabilità non è sufficientemente messo in chiaro e invece è proprio il concetto di persona che dovrebbe essere quello su cui soprattutto battere i tasti della comunicazione, dall’inizio alla fine»

Giovane donna con sindrome di Down

Una giovane donna con sindrome di Down

Cose da non chiedere è un format televisivo che ha esordito su Real Time in prima serata il 21 maggio. Real Time è la rete ammiraglia della galassia Discovery Italia, network che non teme di parlare di disabilità. Abbiamo lavorato insieme in passato e ho avuto modo di apprezzare il loro scrupolo operativo.
Con questa puntata, che forse avrà un seguito o forse no, hanno voluto celebrare la Giornata Mondiale della Diversità Culturale per il Dialogo e lo Sviluppo – del 21maggio, appunto -, raccogliendo domande che la gente comune farebbe a gruppi di persone usualmente considerate “diverse” e fra loro non potevano mancare quelle con disabilità.
I quesiti sono stati posti ad alcuni membri di questi àmbiti che hanno risposto, naturalmente, a modo proprio. Risposte trasmesse in video, in studio un conduttore a reggere le fila del discorso. Esperimento riuscito?
In Discovery conosco molte persone e non voglio che l’amicizia interferisca con la mia capacità critica. Inoltre, quello che di linguaggio ne sa più di tutti nel nostro Paese secondo me è Claudio Arrigoni. Quindi ci consultiamo e decidiamo di buttare giù questo pezzo a quattro mani. Invero due, le sue, perché le mie non scorrono sulla tastiera.

L’idea di far parlare la gente ci piace. Noi nasciamo per questo, per essere fra la gente, e non possiamo non apprezzare chi decide di darle voce. Interessante l’intuizione di chiedere al popolo di preparare domande da indirizzare a quella parte di popolo che meno conosce. Potrebbe portare a fare luce, ma su cosa?
Se vogliamo acquisire nozioni sulla scienza, è senz’altro utile che facciamo domande a degli scienziati. Sulla cucina ai cuochi. Sulla botanica ai giardinieri. Ma ai giardinieri o ai botanici?
Indubbiamente il format non si presenta come programma di divulgazione scientifica. È un programma d’intrattenimento, con l’aspirazione di abbattere pregiudizi e reticenze nei confronti di alcune realtà scottanti, forse tabù. Ma se chiediamo al mercante com’è la sua merce, cosa ci aspettiamo che ci risponda?

Da sempre le persone con disabilità rivendicano di avere voce in capitolo. Di essere le prime a dare indicazioni su se stesse, senza mediazioni. È un bene, ma è anche un pericolo. Le persone con disabilità possono fornire un parere, ma non tutte sono in grado di esprimere i concetti più appropriati. Per quelli non basta appartenere alla “categoria”, bisogna avere studiato; essersi preparati; conoscere. Non basta essere malati per parlare di medicina. Pittori per parlare di storia dell’arte.
Così succede per ciò che nella puntata riguarda le porzioni di trasmissione sulla disabilità (sulle altre non ci riteniamo sufficientemente competenti per esprimere il nostro parere). Gli intervenuti danno le loro risposte, ma manca la risposta autorevole alla domanda, tanto che le domande trovino una qualificata risposta alla loro intrinseca curiosità. Ci domandiamo: le risposte date, come aiuteranno la società a comportarsi correttamente nei confronti delle persone con disabilità? Secondo noi autorizzeranno la comunità a “navigare a vista”.

Si parte con un tema riguardante le persone di bassa statura. E salta all’occhio un’ambiguità nella comunicazione, cioè non si capisce se con questo termine il sipario si alzi sulle persone basse in generale, su quelle definite unicamente “nane” oppure con acondroplasia.
Ecco, a noi pare che così com’è, la gente possa comprendere che tutte le persone “nane” siano persone con acondroplasia, cosa che non corrisponde a verità. Va bene presentare il fenomeno come quello delle persone di bassa statura, ma poi bisogna capire cosa si intende. E per farlo capire ci vuole la voce adatta. I protagonisti del filmato sono bravi a parlare di acondroplasia, ma l’equivoco non viene chiarito. Di chi stiamo parlando? Di persone di bassa statura, “nane” o con acondroplasia?

Si passa alle persone in carrozzina. Parlano di esperienze che rendono l’idea di che cosa sia la disabilità. Sono sincere. Ci piacciono. Hanno il pregio che hanno tutte le altre persone coinvolte di fornire elementi atti a comprendere. Ma non sono la totalità. Così c’è chi rispondendo alla domanda «che cosa invidi di chi non è in carrozzina», dice che invidia azioni che altre persone con disabilità in condizioni analoghe fanno quasi correntemente. Chi guarda non penserà che le azioni invidiate siano precluse a tutte le persone in condizione analoghe? Non penserà che chi le compie è “un eroe”? Il format, in pratica, non risponde alle domande poste dagli spettatori, ma alcune persone rispondono a modo loro e così l’informazione è incompleta, cioè resa vulnerabile dall’idea che ciò che vale per questo gruppo possa valere per la totalità.

Arriviamo alla fine della puntata. Si parla di persone con sindrome di Down. Anzi, “i Down”, così li chiama il conduttore, il giovane scrittore Giacomo Mazzariol, che spiega: «Mio fratello Jo è Down». È una lezione di vita, forse più dei precedenti spezzoni, perché i protagonisti sono molto capaci. E poi c’è Davide che rispondendo alla domanda «che cos’è la sindrome di Down?» dice: «Sono Down». Dice ciò che sembra sentirsi, identificandosi nell’anomalia genetica.
Una voce referenziata avrebbe fatto capire che non è corretto esprimersi così, pur rispettando il parere di ognuno. Ma poco più avanti lo stesso Davide si fa meraviglioso. Quando dice: «Che siano gay, che siano lesbiche, che siamo di colore, che siamo Down non ce ne frega niente! Siamo persone, siamo esseri umani, respiriamo la stessa aria… Siamo tutti un’unica realtà… È questo quello che voglio e per cui mi batto». La persona davanti a tutto. Mai identificarsi con la condizione.
E qui veniamo al dunque di tutto l’impianto: secondo noi l’aspetto della centralità della persona rispetto alla disabilità non è sufficientemente messo in chiaro, anche se la parola “persona” viene indicata nelle copertine che danno il via alle distinte serie di domande. Davide – e quindi chi ha montato il filmato, ovvero chi ha scelto di mostrare questa risposta – ha centrato l’obiettivo, ma il concetto di persona deve essere il “touchscreen” su cui battere i tasti della comunicazione. Deve condurre dall’inizio alla fine. Non si può parlare di “i Down” come fosse corretto. Non può farlo il conduttore.
E quando, dopo avere ispirato il format, lo stesso conduttore conviene che queste risposte non bastino e invita a porre altre domande, qualcuno dovrebbe chiedere come si fa a fare buona informazione sulla disabilità.

Riflessione già apparsa in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it», con il titolo “Cose da non chiedere, risposte ancora da fornire”. Viene qui ripresa, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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