Riflettere sulla violenza maschile nei confronti delle donne senza intraprendere una crociata contro gli uomini (non sono gli uomini il bersaglio da colpire, il bersaglio è il comportamento violento).
Accrescere la consapevolezza collettiva perché il contrasto alla violenza contro le donne sia considerato una responsabilità della politica («non dei politici ma della polis», ossia di tutti e tutte), e non più una questione privata dei soggetti coinvolti.
Affrontare il tema della violenza di genere in termini complessivi, ma saper anche individuare le situazioni di maggiore vulnerabilità che portano a forme peculiari di violenza e richiedono accorgimenti specifici.
È appena stato pubblicato, dalla casa editrice Settenove, il testo In dialogo. Riflessioni a quattro mani sulla violenza domestica, di Nadia Muscialini – psicoanalista impegnata da venticinque anni nella salute e nel benessere femminile, e da dieci nell’assistenza alle donne, ai bambini e alle bambine vittime di violenza – e Mario De Maglie, psicologo, psicoterapeuta, coordinatore clinico e formatore del CAM (Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti) di Firenze, oltreché blogger del «Fatto Quotidiano», e gli aspetti inizialmente accennati sono solo alcuni di quelli che colpiscono di più.
Già nel titolo vi è una felice intuizione: “in dialogo”. Sono state, e sono tutt’oggi, in larga prevalenza le donne quelle che si sono interrogate sul genere; ma, soprattutto su un tema come la violenza, insistere su una visione “a genere unico”, vuol dire condannarsi a “giocare solo in difesa”. È evidente che la voce delle donne vittime di violenza non si pone sullo stesso piano di quella degli uomini che la violenza la agiscono: il “dialogo”, quindi, non serve a garantire una par condicio che non avrebbe ragion d’essere; il “dialogo” serve a comprendere le ragioni della violenza per prevenirla e, ove si fosse già verificata, per farla cessare.
Proprio il dialogo tra i due professionisti – una donna e un uomo – consente di mettere in luce gli aspetti complementari e le sinergie nel contrasto alla violenza. Sempre il dialogo, inoltre, si configura come lo strumento più idoneo a sondare gli elementi della nostra cultura che ancora consentono che la violenza sia così tollerata e così poco riconosciuta, interrogando non solo gli autori e le vittime di violenza, ma anche gli atteggiamenti di chi vi assiste, spesso senza fare nulla. L’ambiente culturale, appunto.
Il testo di Muscialini e De Maglie è suddiviso in due parti, una di carattere sociale, l’altra di carattere clinico. Nella prima parte i due professionisti rispondono in sequenza alle domande più frequenti che sono state loro rivolte nell’àmbito dell’attività di contrasto alla violenza. Ad esempio: cosa “provoca” la violenza sulle donne? Perché gli uomini (alcuni) esercitano violenza? Il “violento” è una persona sana o uno psicopatico? Come si esce dalla violenza? È eticamente corretto aiutare gli uomini autori di violenza? Qual è il contributo “maschile”, e quale quello “femminile”, al contrasto alla violenza di genere? Esiste una violenza delle donne sugli uomini?
Nella seconda parte, invece, viene raccontata l’esperienza di lavoro clinico con le donne che hanno subito violenza (Muscialini), e con gli uomini che l’hanno agita (De Maglie).
L’espressione “lavoro clinico” potrebbe suggerire qualcosa di eccessivamente tecnico, o di difficile comprensione, ma in realtà la scelta di utilizzare un linguaggio divulgativo la rende perfettamente comprensibile a chiunque.
Non entro nel merito della “parte sociale”, sperando che le domande soprariportate suscitino una curiosità sufficiente da indurre i Lettori e le Lettrici ad approfondire il tutto, acquistando e leggendo il testo. Metterò invece in rilevo alcuni aspetti della “parte clinica” che mi hanno colpito in particolar modo.
Della parte dedicata al lavoro con le donne che hanno subìto violenza, penso sia importante ribadire che «ciò che veramente aiuta una vittima e la stimola a chiedere aiuto, è la possibilità di intravvedere un’alternativa alla situazione in cui si trova. Realizzare che c’è una via d’uscita» (Muscialini, In dialogo, p. 123). Questo principio, ovviamente, si applica anche ai casi di forme di violenza particolari, come quelle che interessano le donne con disabilità, le donne in gravidanza e le donne immigrate, tre tipologie che, sia pure per ragioni diverse, sono particolarmente esposte alla violenza di genere.
Accenno molto brevemente ad alcuni aspetti trattati nel testo. La risposta alla violenza nei confronti delle donne con disabilità richiede che ci sia un team di lavoro «accessibile», vale a dire disposto a dotarsi di una flessibilità tale da riuscire ad adattare i propri percorsi alle esigenze poste dalle donne con diversi tipi di disabilità, coinvolgendo anche i servizi per le persone con disabilità, e mettendo in comunicazione i diversi servizi che hanno in carico la donna: servizi sociali, strutture sanitarie, forze dell’ordine, avvocati, tribunali.
Posto poi che secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) la gravidanza può considerarsi come uno dei fattori scatenanti la violenza contro le donne, Muscialini segnala poi la realizzazione di un progetto innovativo volto alla tutela delle gestanti vittime di abusi e violenze, afferenti all’Ospedale Vittore Buzzi di Milano.
Infine, anche la condizione delle donne immigrate presenta delle peculiarità che vanno considerate: esse, trovandosi in un Paese straniero, sono in genere sprovviste di reti parentali e amicali cui fare riferimento; se non sono immigrate regolari, sono impossibilitate a denunciare le violenze; hanno scarse informazioni sulle leggi e sui servizi presenti nel territorio; hanno difficoltà a districarsi tra i servizi stessi e la burocrazia, nonché a comprendere il contesto legale e il linguaggio tecnico-burocratico; temono di venire separate dei propri figli ecc.
E tuttavia, questi elementi di complessità non devono impedire che sia loro garantita un’adeguata assistenza sanitaria (medica e psicologica), protezione da parte delle forze dell’ordine, consulenza e assistenza legale, e tutto quanto occorre alla loro inclusione nella società.
Infine, nella parte dedicata al lavoro con gli uomini, De Maglie spiega, tra le altre cose, che molto spesso gli stessi uomini che agiscono violenza non si percepiscono come violenti; essi tendono infatti a negare o a minimizzare la violenza agita, oppure ad attribuirne la responsabilità alla donna o a fattori esterni, oppure, ancora, a negarne o minimizzarne la gravità.
Per questo motivo una parte consistente del lavoro di chi accoglie gli uomini maltrattanti consiste proprio nell’aiutarli a definire la violenza, a riconoscerla, a nominarla e ad assumersene la responsabilità. A tal proposito dev’essere chiaro che il comportamento violento è sempre frutto della scelta di chi, trovandosi in una situazione conflittuale, non ha saputo scegliere una via diversa per affrontarla. È pertanto necessario far comprendere a questi uomini che è possibile gestire i conflitti in modo differente, e mostrare loro le alternative praticabili.