Prendo spunto da quanto pubblicato su queste stesse pagine nell’articolo intitolato Gli impegni del Ministro dell’Istruzione, dal quale apprendiamo che, durante un incontro promosso a Lodi dalla LEDHA (la Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità che costituisce la componente lombarda della Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), la “special guest” Valeria Fedeli, ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, ha assunto impegni precisi e importanti a supporto dell’inclusione scolastica, tra cui quello di garantire che già dal primo giorno di scuola ci saranno gli insegnanti di sostegno necessari, affinché tutti gli alunni e gli studenti con disabilità possano iniziare l’anno scolastico regolarmente e, soprattutto, di assicurare che sin dal prossimo anno scolastico i dirigenti scolastici potranno prolungare i contratti già in essere con gli insegnanti di sostegno, ai fini della continuità didattica.
In merito alla garanzia del numero “necessario” di docenti per il sostegno ai nostri allievi sin dall’inizio dell’anno scolastico, di cui le nostre stesse Associazioni di e per persone con disabilità sarebbero le prime a rallegrarsi, chi scrive si permette tuttavia di rammentare al ministro Fedeli che, fino ad oggi, nel nostro modello inclusivo caratterizzato da tantissimi docenti precari e impreparati, l’equazione quantità di insegnanti di sostegno = qualità dell’inclusione non ha affatto funzionato. Da questo punto di vista, neppure il tanto celebrato neonato Decreto Legislativo 66/17 sull’inclusione scolastica, attuativo della Legge 107/15 (cosiddetta La Buona Scuola) ha previsto qualcosa per contrastare il fatto che più del 40% (47.000) degli attuali docenti per il sostegno (150.000) sono supplenti, hanno incarichi “in deroga” e, cosa ancor più grave, non sono né specializzati, né abilitati.
Tutto ciò è davvero preoccupante, se si pensa che, ai sensi della citata Delega sull’inclusione della Buona Scuola e dell’altro suo Decreto Attuativo 59/17 (sulle nuove modalità di arruolamento e reclutamento dei docenti), per l’entrata a regime del nuovo sistema di formazione iniziale e di reclutamento dei docenti specializzati ci vorranno diversi anni.
D’altra parte, la previsione dell’articolo 14 del Decreto 66/17 (ribadita tra l’altro dallo stesso ministro Fedeli, in occasione dell’incontro di Lodi), di garantire la continuità didattica dei docenti di sostegno, attraverso la possibilità di confermare per più volte nel corso dell’anno scolastico successivo lo stesso docente con contratto determinato, non depone certo a favore dell’eliminazione di uno dei “mali storici” dell’inclusione scolastica italiana e cioè la cosiddetta “supplentite”, non facendo affatto ben sperare in termini di qualità del modello.
A parere di chi scrive, sulla continuità didattica qualche ombra rimane e si potrebbe e dovrebbe fare di più. Infatti, per ovviare alle menzionate carenze, il Ministero dovrebbe avere finalmente il coraggio di iniziare a rivedere i criteri degli organici dei docenti specializzati, che dovrebbero poter transitare dal presente organico di fatto a quello di diritto delle scuole, e anche prevedere un serio piano di assunzione e di stabilizzazione a lungo termine, attraverso appositi concorsi.
È mia convinzione, dunque, che la questione “continuità” non possa essere risolta né su un piano meramente sindacale, né su un piano tutto individuale, perché il problema è strutturale e tale criticità di fondo dipende dal fatto che ci si ostina a voler considerare erroneamente la continuità soltanto in termini di presenza del docente per il sostegno e non anche – più adeguatamente e propriamente – come “sostegno del contesto”.
Purtroppo il dibattito apertosi sul sostegno da un po’ di tempo a questa parte sta ancora peccando gravemente di superficialità, riducendo appunto il problema dell’inclusione degli studenti con disabilità a quello di un’assistenza adeguata al soggetto, perdendo di vista le caratteristiche che il contesto scolastico deve possedere, perché chiunque – a partire dalle proprie abilità e disabilità –possa costruirvi la propria identità.
In altre parole, l’inclusione dev’essere intesa come quel processo attraverso il quale il contesto scuola, tramite i suoi diversi protagonisti (organizzazione scolastica, studenti, insegnanti, famiglia, territorio), assume le caratteristiche di un ambiente “accogliente”, che risponde ai bisogni educativi di tutti e di ciascun alunno e non solo di quelli con disabilità.
Indubbiamente esiste l’esigenza di garantire la continuità didattica nelle pratiche inclusive, ma il Ministero dovrebbe investire maggiormente e più efficacemente perché ciò avvenisse nell’ottica di un sostegno diffuso e non solo dipendente dall’insegnante specializzato.
A proposito di quanto detto, colgo l’occasione per ricordare al ministro Fedeli e a tutte le forze politiche presenti al Senato, che a Palazzo Madama è stata depositata una Proposta di Legge finalizzata al recepimento del Disegno di Legge C 2656 (Disciplina delle professioni di educatore professionale socio-pedagogico, educatore professionale socio-sanitario e pedagogista), approvato alla Camera nel giugno dello scorso anno, e istitutivo delle figure dell’educatore socio-pedagogico e del pedagogista, rispetto al quale il NIS (Network per l’Inclusione Scolastica) dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) ha proposto recentemente un emendamento mirante all’istituzionalizzazione dei due profili dell’educatore alla comunicazione per gli alunni con disabilità sensoriali e del tiflopedagogista (o esperto in scienze tiflologiche). Tra l’altro, il NIS – per il tramite dell’IRIFOR (l’Istituto per la Ricerca, la Formazione e la Riabilitazione dell’UICI) – sta finalmente definendo pure una specifica formazione universitaria dei suddetti operatori, attraverso l’attivazione di appositi Master di Primo e Secondo Livello.
All’educatore alla comunicazione e all’esperto in scienze tiflologiche, ovviamente, non competerebbero né l’insegnamento disciplinare, né la verifica degli apprendimenti dell’alunno con disabilità, ma il dovere di supportare i docenti curricolari e quelli per il sostegno, il Consiglio di Classe e l’intero contesto scolastico, suggerendo appropriate metodologie e indicazioni didattiche ed educative, oltreché fornendo gli strumenti volti a rendere efficaci e inclusivi gli insegnamenti e gli ambienti, sia pur nei limiti consentiti dalla disabilità dell’alunno.
Per quanto finora esposto, chi scrive ritiene sia urgente ripensare completamente la scuola, se vogliamo che sia davvero inclusiva e for all, ovvero per tutti e per ciascuno. È necessario, ad esempio, ripartire dalle preziose considerazioni delle psicologo Vygotskij, in particolare quando sostiene che l’educazione e l’istruzione si attuano solo attraverso l’esperienza personale dell’alunno e le sue naturali differenze individuali, interamente determinate dall’ambiente, mentre il ruolo del docente è quello di organizzare e ordinare il contesto stesso.
La via indicata dalle norme, e alla quale dovrebbe fare riferimento il Ministro, non è perciò quella del mantenimento del perverso meccanismo degli incarichi “in deroga”, quanto piuttosto quella della formazione generalizzata sulla Didattica Inclusiva e sulla Pedagogia Speciale, delle competenze specifiche diffuse a tutto il personale scolastico, agli educatori e agli assistenti alla comunicazione, della collegialità e della presa in carico del Consiglio di Classe e dell’intero contesto, superando il modello della delega al solo insegnante di sostegno, purtroppo tristemente rafforzato nella sua centralità proprio con il recente Decreto sull’inclusione della Buona Scuola.
Il docente di sostegno, infatti, dev’essere inteso come sostegno alla classe e non solo all’allievo che gli è affidato, come indicato sin dalla Legge Quadro 104/92. Allo stesso modo, ogni docente curricolare dev’essere “insegnante di tutti”, e quindi anche degli allievi con disabilità. Per tale motivo, egli stesso dev’essere opportunamente formato pure sulla Didattica Inclusiva e sulla Pedagogia Speciale.
Per avviare questa virtuosa controtendenza all’odierno sistema, a prescindere dalla deludente recente riforma del sostegno, è necessario quindi un radicale cambio di approccio e di mentalità da parte del Ministero e anche di certi genitori e insegnanti per il sostegno, che a mio parere dovrebbero finalmente smetterla di rincorrere i “totem” di un passato, che faceva ritenere – e per certi versi fa ancora ritenere – l’insegnante specializzato (spesso poco qualificato e preparato) e il maggior numero possibile di ore di sostegno quali uniche risorse e ineccepibili garanzie del successo formativo degli alunni e studenti con disabilità.
Non può essere insomma il solo docente specializzato a garantire la qualità del sostegno, ma la scuola nel suo complesso, se ben valorizzata e opportunamente stimolata. Solo questa più moderna prospettiva culturale e professionale, centrata sull’attenzione alle differenze individuali di tutti gli allievi da parte del contesto, potrà ridare dignità di ruolo e di funzione ai docenti specializzati, ancor più di mille Decreti sull’inclusione. E solo attraverso il lavoro sui contesti – e non esclusivamente sui singoli insegnanti di sostegno e sugli alunni con disabilità – si potrà promuovere l’inclusione scolastica, con il coinvolgimento e la partecipazione sociale di tutti e di ciascuno studente, portatori dei loro specifici bisogni, come viene detto anche nell’ICF [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, fissata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.] e nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.
In proposito, nel quadro di fretta e pragmatismo che sta caratterizzando ultimamente la discussione sul nostro modello di inclusione, non si può non far notare al Ministro dell’Istruzione che si sta rischiando di “mettere tra parentesi” il ruolo estremamente positivo svolto in questi anni proprio dal contesto, e in particolare dalla rete dei CTS, i Centri Territoriali di Supporto troppo sbrigativamente depennati e trasformati in ectoplasmatiche “Scuole Polo” dal Decreto 66/17.
Infatti, sembra paradossale e grottesco che tutta la legislazione scolastica sull’autonomia reciti più volte che, per uscire dall’isolamento, le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado debbano sviluppare sinergie e sintonie strategiche con il contesto e “fare rete”, ma che proprio la Buona Scuola abbia al contrario finito per annullare frettolosamente un’esperienza particolarmente proficua di scambio e collaborazione tra le scuole e il territorio, di informazione e formazione dei docenti e di supporto all’inclusione scolastica come appunto quella dei CTS.
L’auspicio, pertanto, è quello che, già subito dopo le ferie estive, il Ministero apra una seria riflessione e un costruttivo confronto con le nostre organizzazioni sulle potenzialità dei CTS e sulla loro capacità di fare rete con il contesto, in quanto, se ben curati e valorizzati, essi potrebbero realmente diventare l’architrave su cui costruire il nuovo modello italiano d’inclusione del Terzo Millennio.