La vicenda di Charlie Gard, il bimbo di nemmeno un anno al quale i tribunali inglesi e la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, su giudizio dei medici dell’ospedale londinese Great Ormond Street dove è ricoverato, hanno deciso di interrompere gli interventi medici che lo tengono in vita, apre molti interrogativi sul modo in cui la società accoglie le persone che abbiano determinate caratteristiche, considerate “socialmente indesiderabili”.
Cercherò di mettere in evidenza i temi principali, del resto già contenuti nel documento L’approccio bioetico alle persone con disabilità, prodotto dal Comitato Nazionale di Bioetica della Repubblica di San Marino a cui rimando e del quale si è ampiamente parlato a suo tempo su queste stesse pagine.
Il primo tema riguarda la genitoralità. Nel primo Convegno Mondiale su Bioetica e Disabilità, organizzato nel 2000 a Birmingham da DPI Europe (Disabled Peoples’ International), l’Associazione Europea della spina bifida sottolineava che il rapporto tra i genitori e un bambino con una forte limitazione funzionale o una patologia che lo porti alla morte precoce, è qualcosa di profondo, che ha a che vedere con la relazione che si crea al momento della nascita. È un rapporto d’amore e allo stesso tempo una responsabilità che i genitori si assumono per proteggere quella vita. «Questo rapporto è così forte – ricordava Pierre Mertens, presidente di quell’organizzazione – che vale la pena di viverlo anche per pochi mesi».
Il fatto che i tribunali possano decidere al posto dei familiari è a mio avviso intollerabile. Ma su cosa hanno deciso i tribunali? Su due argomentazioni: la prima che il bambino ha una malattia incurabile e quindi è destinato a morire. Il tema riguarderebbe solo diciannove bambini al mondo e quindi gli interventi sanitari risulterebbero inutili, anzi rappresenterebbero una sorta di accanimento terapeutico che farebbe soffrire il bambino stesso. Ma cosa sarebbe successo se all’inizio di una malattia mortale oggi curabile – come è accaduto per tante malattie degenerative -, si fosse intervenuto in passato per interrompere le cure e la ricerca su quella patologia? Che molte malattie oggi curabili non avrebbero avuto una ricerca appropriata e oggi sarebbero ancora incurabili.
Il principio utilitaristico teorizzato da Jeremy Bentham tra Sette e Ottocento, di non investire su pochi casi risorse economiche ed umane, ma di preservare gli interessi della maggioranza della popolazione, cozza oggi con la tutela dei diritti umani di tutte le persone viventi e in particolare sul princìpio fissato dall’articolo 10 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità [“Diritto alla vita”: «Gli Stati Parti riaffermano che il diritto alla vita è connaturato alla persona umana ed adottano tutte le misure necessarie a garantire l’effettivo godimento di tale diritto da parte delle persone con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri», N.d.R.].
Si tratta di un’evoluzione delle leggi e degli interventi di tutela dei diritti umani, introdotte nel 1948 dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU. Infatti, il caso di Charlie solleva il seguente tema: a chi deve essere applicata la ricerca, in questo caso medica? E questa ricerca vale per tutti gli esseri umani in maniera eguale, o per alcuni le risorse non debbano essere investite perché si tratta di un numero esiguo di individui?
Il secondo argomento, trascurato dagli organi di informazione, è che gli interventi su Charlie sono costosi e applicarli a una vita che non durerà molto (in qualche modo, dunque, “inutile”) è uno “spreco”.
A mio parere, infatti, dietro la motivazione che si sottoponeva Charlie a una sofferenza inutile, per i tribunali c’era questa motivazione economica, già intravista nella nostra esperienza quotidiana, quando scopriamo che non si investe sulle cure per i pazienti molto anziani, che i trapianti non dovrebbero essere fatti su persone con disabilità intellettive, che i farmaci costosi non possono essere prescrivibili e così via.
È un tema – sollevato di recente anche dai coniugi Gard, quando hanno dichiarato che Charlie morirà perché loro non hanno le risorse economiche per curarlo – che nei prossimi anni diventerà uno dei primi nell’agenda mondiale: se i diritti dipendono dalle risorse, solo chi potrà permettersi cure costose potrà accedere a interventi sanitari, mentre i meno ricchi dovranno accontentarsi di ciò che potrà essere garantito dai servizi sanitari pubblici. Però le risorse e la crescita economica non dovrebbero essere al servizio della tutela dei diritti umani di tutti gli esseri umani viventi?
Il diritto alla vita di Charlie, invocato dalla responsabilità genitoriale del papà e della mamma, e da milioni di persone nel mondo, ci riguarda. Infatti è bastato che l’Ospedale Bambino Gesù di Roma dicesse «lo voglio curare io» e applicare un protocollo di ricerca su quella patologia, perché si squarciasse il sipario che nascondeva la decisione dei tribunali, rendendo chiaro e meno difendibile il livello di discriminazione nell’accesso ai servizi sanitari cui era sottoposto il bimbo.
Vicende come quelle di Charlie ci riguardano, non solo per le emozioni che suscitano, ma anche per le implicazioni bioetiche che le accompagnano. Ognuno di noi, infatti, potrebbe trovarsi in situazioni vicine a quelle di Charlie e vedersi negate le cure. Il mondo non è fatto solo da coloro che vogliono interrompere la propria vita perché la considerano inaccettabile (sul tema dell’eutanasia assistita si dovrebbe riflettere in maniera ben più ampia di quella che appare sui giornali), ma anche da coloro che la vita la vogliono difendere in forma eguale rispetto alle altre persone.