Verona: in un negozio di abbigliamento, situato nel centro storico della romantica città veneta, una giovane giornalista in carrozzina di nome Valentina Bazzani [se ne legga anche su queste stesse pagine una lunga intervista concessa al nostro giornal, N.d.R.] si avvicina a una commessa. Ha notato un abito carino e vorrebbe provarlo. Chiede se c’è un camerino con la tenda perché la porta dello spogliatoio non si chiude, se dentro c’è una carrozzina. La commessa le osserva, non sa cosa dire. Esita un momento, mentre pensa a una soluzione, poi risponde: «Mi dispiace. Però, se vuoi, puoi cambiarti di là, c’è solo un ragazzo».
Le parole dell’addetta alle vendite riecheggiano nella testa della “giornalista a quattro ruote”, come lei stessa suole definirsi. Un verdetto che la lascia basita, mentre l’ennesima sbarra rossa si abbatte sulla sua voglia di agire e di esistere.
Non è la prima volta che le succede, ma il problema non è questo. Ciò che la preoccupa non sono le barriere architettoniche, ma quelle culturali nelle quali si imbatte quotidianamente, sia come professionista che come cittadina.
Questa volta, però, c’è qualcosa di diverso. Valentina non sta realmente facendo shopping, si tratta di una prova e mi sta accompagnando in un tour volto a realizzare un esperimento confluito nella realizzazione di un documentario intitolato Vorrei ma non posso: quando le barriere architettoniche limitano i sogni, consistente in un’inchiesta a telecamere nascoste.
«È sempre così», commenta Valentina, che aggiunge: «Un disabile o si cambia all’aperto oppure acquista alla cieca. Molto spesso la carrozzina non entra in camerino, o meglio, ci entra, ma la porta non si chiude perché lo stanzino è troppo piccolo e, di conseguenza, la privacy si trasforma in pura utopia. Dai camerini si passa al problema delle rampe, assolutamente inesistenti, agli scalini posti all’entrata dei negozi che non permettono l’accesso e obbligano l’accompagnatore a sollevare la carrozzina o a chiedere aiuto ai passanti, senza parlare poi degli sportelli dei bancomat, le cui tastiere sono posizionate troppo in alto divenando di conseguenza inutilizzabili per chi è in carrozzina».
Le barriere architettoniche sono visibili, riconoscibili, facilmente individuabili, ma non per tutti. Coloro che vivono la disabilità quotidianamente si rendono conto di tutti quegli ostacoli che ledono di fatto l’autonomia di una persona e questo è uno dei tanti motivi per i quali Valentina ha deciso di partecipare al documentario che vuole rispondere a un quesito specifico: è possibile per una persona con disabilità trascorrere una giornata in centro all’insegna del divertimento?
Perché Valentina non è di certo una giornalista che si arrende. Assieme alla mamma ha affrontato per svariati mesi gli scalini e i ponti di Venezia, per partecipare ai corsi dell’Ordine dei Giornalisti, necessari per sostenere l’esame per l’iscrizione all’Albo e ce l’ha fatta.
Ha pubblicato un libro, Quattro ruote e tacco 12, un diario di bordo che esorta a sognare e sperare. Le mancava solo un documentario da aggiungere alla lunga lista di collaborazioni e, dopo poco, è arrivata l’occasione.
«Lo scorso marzo – dice – Alessia [Alessia Bottone, che firma questo approfondimento, N.d.R.] mi ha contattata per coinvolgermi nel progetto. Mi ha inviato la sceneggiatura del documentario che aveva scritto dopo aver passato a setaccio tutte le insidie della città e, nel giro di un mese, sono iniziate le riprese in centro, assieme a Elettra Bertucco la videomaker. Non è stato semplice accorgersi che nessun negozio disponeva di una rampa!».
Non la solidarietà, ma l’autonomia
Spostandosi per le strade di Verona, la prima cosa che balza agli occhi e al cuore è la disponibilità dei passanti, dei cittadini e dei turisti. Tutti coloro che ci hanno visto in difficoltà hanno offerto aiuto e anche le commesse si sono prodigate per sollevare la carrozzina, permettendoci di entrare nei negozi. Certo, è chiaro che la solidarietà non manca, ma non basta per due motivi.
Innanzitutto perché il problema affonda le sue radici in questioni spigolose, in paradossi normativi che sfociano in confusione e interrogativi destinati a non trovare risposta. In secondo luogo c’è da dire che il vero obiettivo dev’essere la promozione dell’autonomia della persona. Attendere fuori dalla porta di un negozio sperando che qualcuno sposti una carrozzina è ben diverso dal dotarsi di una rampa e di un campanello di chiamata all’entrata. Allo stato attuale c’è bisogno di una progettualità empatica, capace di prendere in considerazione i bisogni di tutti. Oggi come oggi, l’ingegneria, così come l’architettura e il design di interni, tendono ancora a escludere: rendono bello ciò che è brutto, ma non fruibile ciò che è inaccessibile.
PEBA: uno strumento di democrazia
Proprio questo è l’obiettivo del PEBA, il Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche che partirà a breve a Verona, come ha recentemente annunciato Ilaria Segala, assessore comunale all’Urbanistica con Delega alle Barriere Architettoniche.
Si tratta di una vera e propria “rivoluzione culturale” – quanto mai necessaria – che darà il via a una serie di interventi mirati, volti a promuovere l’accessibilità e la fruibilità degli spazi pubblici. La questione del PEBA, infatti, non è solo un problema locale, come spiega Michele Franz, responsabile organizzativo del CRIBA (già Centro Regionale di Informazione sulle Barriere Architettoniche, oggi Centro Regionale di Informazione sul Benessere Ambientale) del Friuli Venezia Giulia.
«Partiamo dal presupposto – spiega Franz – che il problema sorge soprattutto quando si continua a costruire, senza riflettere se un edificio, uno spazio pubblico o un negozio risultano davvero difficili. Non è additando i commercianti che risolveremo il problema, anche perché si tratterebbe di una scelta iniqua, dal momento che dovrebbero essere i Comuni stessi a dare il buon esempio attraverso l’adozione dei PEBA, introdotti già più di trent’anni fa, dalla Legge 41 del 1986. Aggiungo che noi, come CRIBA, abbiamo fatto un censimento dei Comuni sul territorio della nostra Regione regionale con più di 2.000 abitanti ed è emerso che su 127 Comuni censiti solo 9 avevano adottato un PEBA!».
Il problema dell’accessibilità è dovuto anche all’assenza di una normativa precisa che contempli l’abbattimento delle barriere architettoniche per ciò che concerne gli edifici privati aperti al pubblico preesistenti.
«Attualmente – illustra a tal proposito l’avvocato Stefano Scremin dello Studio Massella di Verona -, le prescrizioni tecniche regionali aggiornate nel 2011 e la normativa nazionale si focalizzano solo sulle nuove costruzioni, i cambi di destinazione o i casi di ristrutturazione, non dando, di conseguenza, seguito a vincoli per tutte le altre casistiche».
Un segnale di cambiamento
Ma le barriere architettoniche sono, prima di tutto, barriere culturali e lo conferma anche la spinosa questione relativa al canone per l’occupazione del suolo pubblico.
Nello specifico di Verona, il Regolamento per l’Occupazione di Spazi e Aree Pubbliche (COSAP) contempla, tra le altre esenzioni, gli «accessi carrabili destinati a soggetti portatori di handicap», ma non le rampe posizionate all’ingresso degli edifici privati aperti al pubblico, volte ad abbattere le barriere architettoniche. Questo vuol dire che il canone per l’occupazione del suolo pubblico deve essere versato dai commercianti, se costruiscono una rampa che facilita l’accesso dei disabili. La tariffa dipende dalla zona e varia in base alla metratura. Secondo alcuni calcoli, il canone può aggirarsi anche sui 3.000 euro all’anno per una rampa permanente.
Ma facciamo un passo indietro, per comprendere meglio la questione. Di COSAP si inizia a parlare nel 2006, quando due Consiglieri Comunali veronesi presentano una mozione per prevedere un’esenzione in caso di rampe per disabili. La mozione è protocollata, ma non è mai stata discussa in aula. Poi il silenzio, fino a quando recentemente, in alcune città d’Italia, qualcosa inizia a cambiare.
Un esempio virtuoso è rappresentato da Venezia, Milano e Pescara, città che hanno recentemente inserito l’esenzione, scrivendo una nuova pagina nella storia della battaglia per l’abbattimento delle barriere architettoniche.
Un esperimento volto a sensibilizzare
Non è la prima volta che le telecamere, la stampa e la TV si concentrano sulla mappatura delle difficoltà e degli ostacoli dei luoghi pubblici. «Vorrei ma non posso – spiega infatti Valentina Bazzani – non si presenta come una novità, quanto piuttosto come un progetto volto a sensibilizzare soprattutto le nuove generazioni».
In sostanza l’obiettivo è quello di condividere il risultato della ricerca con gli studenti e promuovere una cultura del rispetto, volta a riscoprire la curiosità, qualcosa che probabilmente si è perso nel corso degli anni. Coloro, infatti, che desiderano conoscere, capire ed entrare in empatia con le persone che hanno di fronte sono in grado di leggerne le anime e di comprenderne i bisogni. Senza la curiosità e il vivo interesse verso il prossimo, non sarà possibile dare seguito a una società inclusiva.
Ed è proprio questo ciò che hanno dimostrato i tanti giovani che hanno affollato la Sala Convegni della Gran Guardia di Verona, il 27 settembre scorso, in occasione della presentazione del video Vorrei ma non posso, raccontando e descrivendo, con entusiasmo e un pizzico di emozione, la loro voglia di fare e il loro impegno per fare il salto che li porterà a scavalcare i muri che ci separano dalla realizzazione del sogno di una vita alla pari.
A questo link è disponibile la versione integrale (27’33”) del documentario Vorrei ma non posso: quando le barriere architettoniche limitano i sogni.
La presentazione del 27 settembre, alla Sala Convegni della Gran Guardia di Verona, citata da Alessia Bottone nel suo approfondimento, ha potuto contare su una nutrita partecipazione, anche grazie al supporto dell’Associazione Genitori Tosti in Tutti i Posti, presieduta da Alessandra Corradi.