«Aver cura di un familiare non autosufficiente è una scelta d’amore che deve essere sostenuta e tutelata in Italia come accade in tutte le altre nazioni civili!!!» Il testo è scritto tutto in maiuscolo, i caratteri sono blu, tranne le espressioni “scelta d’amore” e “in Italia”, che sono evidenziate in arancione e sottolineate. Sulla sinistra il fiocchetto blu e arancio scelto per connotare le rivendicazioni per il riconoscimento e la tutela della figura del caregiver familiare, ovvero colui o colei (più spesso colei) che si prende cura in modo gratuito, continuativo e quantitativamente significativo (per molte ore al giorno), di familiari del tutto non autosufficienti a causa di importanti disabilità, spesso per insufficienza o mancanza di adeguati servizi pubblici di assistenza.
Sono tanti e diversi gli slogan e le riflessioni espresse dagli stessi caregiver familiari, che legano questa sacrosanta rivendicazione ai sentimenti. «Le cure amorevoli sono le migliori», «i caregiver sono mossi da affetto», «ciò che lega il caregiver alla persona cara è l’amore» e altre espressioni di identico tenore.
Ma le cure amorevoli sono proprio le migliori? Ecco, non ne sono affatto sicura. Penso che le persone non autosufficienti abbiano diritto a ricevere l’assistenza di cui hanno bisogno, e credo anche che questa assistenza debba essere fornita con una modalità tale da garantire l’espressione delle libertà inviolabili di ciascun individuo, prima tra esse quella di autodeterminazione.
Penso anche che le persone non autosufficienti, una volta divenute adulte, debbano essere messe in condizione di scegliere se continuare a stare nella propria famiglia di origine, o se emanciparsi da essa (magari creandone una propria, di famiglia).
C’è un pregiudizio deleterio nel ritenere che il miglior interesse della persona con disabilità sia sempre quello di ricevere cure dai suoi familiari: qualche volta è così, altre volte no. Se la persona con disabilità desidera questo tipo di cure, dovrebbe essere messa in condizione di sceglierlo, ma se preferisse servirsi di assistenti personali remunerati, o di altre soluzioni, queste alternative dovrebbero essere sempre garantite. Non garantirle significa negare il godimento di una libertà inviolabile.
Le considerazioni sull’autodeterminazione – pur con opportune rimodulazioni e diversi accorgimenti – si applicano anche ai casi di persone con disabilità intellettive e psichiatriche, e alle persone anziane. Cosa c’entrano i sentimenti con tutto questo? Niente! Che ci siano o non ci siano – a un livello di confronto pubblico – è, o dovrebbe essere, del tutto irrilevante, perché il diritto di ricevere assistenza va riconosciuto a chiunque ne abbia necessità, a prescindere dal fatto che qualcuno lo/la ami o meno.
A ciò si aggiunga che i legami sentimentali possono rilevarsi un subdolo ostacolo all’esercizio della libertà della persona con disabilità. Quest’ultima, infatti, potrebbe limitare le proprie scelte – e dunque la propria libertà – “per non dispiacere” o “per non affaticare troppo” chi le presta “cure amorevoli”.
Ogni persona con disabilità potrebbe avere buoni e validi motivi per non voler chiedere ai propri familiari di prestarle assistenza: intanto perché i rapporti con i familiari non sono sempre idilliaci (sono certa che Abele, il fratello di Caino – dei quali si narra nella Genesi -, se fosse vissuto nella nostra epoca, avrebbe avuto qualcosa da dire a riguardo); oppure perché, anche in presenza di buoni rapporti, essa potrebbe non voler dipendere dai familiari per l’assistenza, perché teme che questo, a lungo andare, incrinerebbe i buoni sentimenti…
Oltretutto, impostare la rivendicazione del riconoscimento della figura del caregiver familiare facendo leva sul perno sentimentale, non fa altro che incoraggiare nelle istituzioni l’abusata e spregevole pratica di sfruttare i legami affettivi come strumento di ricatto: «Dal momento che io Stato so che tu ami tuo figlio/fratello/marito/padre/zio… (e tutte le varianti al femminile) – lo so anche perché tu continui ad affrontare la questione dell’assistenza in termini di affetto -, allora continuerò a non darti alcun servizio perché proprio il tuo amore ostentato mi garantisce che tu le cure al tuo/a caro/a continuerai a darle anche se io non ti darò niente»!
Questo, si badi bene, non significa che nel lavoro di cura i sentimenti vadano tenuti fuori dalla porta, significa invece che i sentimenti – qualunque essi siano (non darei per scontato che siano sempre positivi, di caregiver stanchi e risentiti ne conosco diversi) – debbano essere considerati come una variabile intima e soggettiva, ininfluente rispetto al diritto della persona con disabilità di ricevere assistenza, e a quello del caregiver familiare di non essere esposto alla violazione dei propri diritti umani nell’esercizio del proprio ruolo.
Lo Stato non deve riconoscere e tutelare i caregiver familiari perché questi hanno buoni sentimenti, lo deve fare perché (e solo se) questi sono artefici di libertà.
Per questi motivi considero un errore gravissimo – sia su un piano politico, sia sotto il profilo della comunicazione – quello di inquadrare e presentare il lavoro di cura prestato dai caregiver familiari come una questione sentimentale. E poco importa che questo errore sia commesso in buona fede: penso – e da caregiver lo dico con profondo dolore e amarezza – che non si possa fare alle persone con disabilità (proprio quelle che diciamo di amare) un danno più grande che continuare a spostare l’assistenza alla persona dal dominio certo dei diritti a quello, necessariamente arbitrario, dei sentimenti.
Dunque, care e cari che come me siete impegnati in questa importantissima rivendicazione, continuate pure a coltivare e ad esprimere i vostri sentimenti in privato, ma in pubblico, nelle piazze, con le istituzioni, con i media, sui social, ovunque, quelli che vanno rivendicati e tutelati sono solo il diritto e la libertà di dare e ricevere assistenza liberamente manifestati dai soggetti coinvolti.