Se non è colpa dei bambini (e fin qui siamo d’accordo) allora è colpa dei genitori e, naturalmente, dei neuropsichiatri infantili. Così afferma il pedagogista Daniele Novara, nella presentazione del suo ultimo libro [“Non è colpa dei bambini”, Rizzoli, 2017, N.d.R.], che prende spunto dall’incremento delle certificazione dei DSA (disturbi specifici dell’apprendimento) e di diversi disturbi del comportamento e della comunicazione, tra cui l’autismo. «In una scuola, e in una società, che sta abbandonando una delle sue missioni fondamentali, crescere le nuove generazioni è diventato perversamente più̀ semplice definire malato un bambino che non riusciamo a educare», scrive Novara.
In pratica, se un ragazzo nonostante tutti gli sforzi non riesce a imparare le tabelline o a capire un testo scritto, non è in ragione di un disturbo specifico, ma per colpa dei genitori che non l’hanno saputo educare, che non si sono occupati abbastanza di lui, lasciandogli trascorrere troppo tempo tra TV e smartphone.
«Veramente i miei genitori mi stanno sempre addosso, la televisione è quasi sempre spenta e il cellulare lo uso come tutti i miei compagni. E poi, se è colpa dei miei genitori perché io faccio tutta questa fatica e mio fratello no?»…
Inoltre, non solo nella tesi del libro, ma anche nel senso comune diffuso, la responsabilità dei genitori aumenta in modo esponenziale se il disturbo non riguarda le capacità di apprendimento delle nozioni, ma la regolazione del comportamento. In questo caso è “evidente” che la colpa è tutta dei genitori che non sanno più educare come si deve i figli, a stare un po’ fermi, a rispettare le regole.
In questi ultimi anni la comunità scientifica è uscita da tempo dal conflitto che vedeva contrapposta la genetica e l’ambiente. In parallelo, ha lavorato per identificare meglio i disturbi che possono rendere più faticoso il funzionamento e la vita dei bambini, e per trovare interventi efficaci che ne modifichino le traiettorie evolutive. Interventi che spesso sono educativo-riabilitativo-terapeutici, e questo facilmente ingenera confusione: se li posso curare con interventi educativi, vuol dire che sono causati dalla cattiva educazione. Tra questi sono stati identificati alcuni disturbi specifici, che riguardano quindi non la complessità del funzionamento della persona, ma solo, e in modo selettivo, alcune sue parti.
Lo sappiamo da relativamente poco, ma è ormai un sapere acquisito e riconosciuto dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità): per essere certificati come bambini e persone con un DSA non è sufficiente la segnalazione di un genitore ansioso o di una maestra pigra con la complicità di un neuropsichiatra in cerca di clienti: è necessario affrontare una serie di test, validati scientificamente, che verifichino e attestino l’esistenza del disturbo. Certificazione di cui tutti farebbero volentieri a meno, barattandola con un funzionamento più efficiente. Ragazzi che farebbero volentieri a meno della calcolatrice per fare i conti o della tabelle dei verbi. Ragazzi che hanno capito che è meglio accettare questa forma di aiuto per poter continuare a crescere e a imparare materie ben più complesse del semplice calcolo di una formula.
È un percorso di crescita che passa dall’accettazione dei propri limiti che è richiesto a questi bambini e a questi ragazzi, così come a tutti gli educatori che li accompagnano nei loro percorsi di crescita. Un percorso che evidentemente Daniele Novara non ha ancora compiuto: è rimasto fermo a quel periodo, non lontano da noi, in cui questi bambini erano etichettati come “asini” e “monelli”, imponendo loro punizioni e compiti supplementari. Bambini che spesso interrompevano precocemente gli studi, cui veniva inflitto un supplemento maggiore di fatica (e di vera sofferenza), perché additati come, appunto, “asini” e “monelli”. In un periodo un po’ più lontano da noi, molti di questi bambini venivano indirizzati verso le classi speciali e differenziali.
Caro signor Novara, ci dispiace, ma non è accettabile che si usino fatiche vere per giustificare tesi palesemente infondate e così pericolose per il rispetto dei diritti dei bambini. Perché è vera la fatica degli adulti di oggi ad aiutare i propri figli con proposte educativa significative e autorevoli, in un mondo che cambia ogni giorno a una velocità impressionante e in cui è indispensabile ridefinire continuamente ruoli e regole. Perché è vera la fatica della scuola a rispondere in modo adeguato ai bisogni educativi di tutti i bambini e di tutti i ragazzi da cui potrebbe nascere il rischio di affibbiare superficialmente etichette sanitarie. È anche vera la fatica dei servizi specialistici, così come di quelli sociali, di prendersi in carico dei bambini che ne hanno bisogno nella loro globalità e complessità e non solo per il loro “disturbo”, in un Paese che investe moltissimo sulle cure fisiche dei bambini e pochissimo sul garantire le cure per i disturbi neuropsichici.
Ma tutte queste fatiche hanno poco o nulla a che fare con l’incremento delle certificazioni e tanto meno giustificano la negazione dell’esistenza dei disturbi del neurosviluppo e dei disturbi psichiatrici. In certi casi l’ignoranza non è ammissibile. Quando poi in questo delirio si riprendono, di fatto, vecchie tesi che mettono in connessione l’autismo con gli stili educativi dei genitori, la responsabilità diventa una colpa. Grave.
Giovanni Merlo è direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità, componente lombarda della FISH-Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap); Antonella Costantino è presidente della SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza).
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