Ho letto con interesse e condiviso i contenuti delle interviste rilasciate da Dario Ianes, Serve più flessibilità o la scuola dell’inclusione non ci sarà mai, pubblicata il 2 novembre da «Vita» e Disabili. Inclusione scolastica metà degli alunni rimane fuori classe, letta il 4 novembre su «Avvenire».
In quest’anno in cui ricorrono i quarant’anni dalla promulgazione della Legge 517, i trent’anni dalla Sentenza della Corte Costituzionale n. 215 e i venticinque anni dall’emanazione della Legge Quadro 104, credo sia opportuna una riflessione su questa normativa di chi, come me – disabile visivo, oggi componente come esperto del NIS (Network per l’Inclusione Scolastica) dell’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) ed Enti collegati – a partire dall’ormai lontano 1972 si è occupato, con ruoli diversi, dell’inclusione scolastica delle persone con disabilità nella scuola. Lo faccio con l’esperienza del consulente tiflopedagogico, del docente e dirigente scolastico di scuola secondaria di secondo grado, del formatore di docenti per il sostegno e anche come ex componente e responsabile delle Commissioni Nazionali Istruzione dell’UICI, nonché, negli ultimi anni, come referente della FAND (Federazione tra le Associazioni Nazionali delle Persone con Disabilità) nel Gruppo Scuola Nazionale e presso l’Osservatorio sull’Inclusione Scolastica del Ministero.
Una voce, la mia, al di fuori del mondo accademico e vicina alla scuola “in atto”, agli alunni con disabillità e alle loro famiglie.
Queste mie riflessioni vogliono aiutarci a capire il perché, dopo quarantacinque anni dall’inserimento dei primi disabili nella scuola di tutti, la situazione sia oggi quella richiamata dal professor Ianes nelle sue interviste e perché un vero modello inclusivo non sia mai nato, con l’inserimento prima, l’integrazione poi e l’inclusione oggi, ancora realizzati “a macchia di leopardo” da gruppi di docenti di “buona volontà”, che sembra quasi continuino a “sperimentare” con successo buone prassi di modelli dai quali il “sistema scuola” resta però al di fuori, un sistema che non è ancora riuscito a elaborare gli standard del modello da “offrire” alle scuole, che siano capaci di rendere effettiva e omogenea l’inclusione scolastica su tutto il territorio nazionale.
Sarebbe semplicistico dire che la causa stia nel costume del nostro Paese, dove, a fronte di Leggi molto avanzate, permangono comportamenti che sembrano ignorarle. Riflettendo sulla storia della legislazione sull’inclusione, emerge invece come in realtà proprio in essa trovi origine l’attuale stato di cose.
All’inizio degli Anni Settanta, i primi inserimenti scolastici di alunni con disabilità si realizzarono contra lege o extra lege: significativo, in tal senso, è l’esempio dei primi ciechi inseriti nella scuola di tutti, a partire appunto dal 1972, dove solo l’autodenuncia di un gruppo di genitori provocò una Sentenza della Corte Costituzionale che ne legittimò il diritto, un diritto che venne successivamente sancito dalla Legge 360/76, ma senza che questa dicesse nulla sulle modalità con cui l’inserimento dovesse realizzarsi.
Quegli inserimenti, tuttavia, ebbero successo perché in quegli anni vi era nella scuola una consapevolezza della necessità di cambiare e un clima di innovazione ben rappresentati nella Lettera a una professoressa di don Milani. L’accoglienza degli alunni con disabilità – favorendo il rinnovamento e la sperimentazione didattica – rientrava in quella volontà di cambiamento.
Come noto, l’anno successivo la Legge 517, oltre a riconoscere il diritto di tutti gli alunni con disabilità ad assolvere all’obbligo scolastico nelle scuole “normali”, forniva le indicazioni necessarie alla costruzione del modello di inclusione e per il successo dell’integrazione: riorganizzazione del “contesto”, prevedendo «attività scolastiche integrative organizzate per gruppi di alunni della classe oppure di classi diverse», e ancora «attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno», quale premessa, questa, per il lavoro del docente specializzato per il sostegno assegnato alla classe in un rapporto di uno a quattro.
Contemporaneamente, però, nulla veniva detto, nello stesso senso, in riferimento alla generalità delle classi e la concretizzazione di quanto affermato nella Legge 517 trovava supporto giuridico solo in uno dei “Decreti Malfatti”, il DPR 419/74 sulla sperimentazione didattica ed educativa. Nasceva così quasi una “scuola parallela” che si occupava dell’inserimento con modalità sperimentali, mentre il sistema nel suo complesso continuava a tenersene fuori: in quegli anni, ad esempio, non era raro trovare Collegi di Docenti che, non riuscendo a rintracciare alcuna maestra o Consiglio di Classe disponibile ad accettare spontaneamente l’alunno con disabilità, proponessero l’individuazione della classe in cui inserirlo per sorteggio.
Nonostante ciò, la scuola elementare (oggi scuola primaria), che al suo interno aveva personale docente e direttori con competenze didattiche e pedagogiche, riuscì a sviluppare modelli di insegnamento capaci di integrare gli alunni con difficoltà; mentre l’inserimento nella scuola secondaria di primo grado (allora scuola media), con docenti spesso dotati di scarse competenze pedagogiche e che applicavano una didattica più improntata al disciplinare, faticava di più a sviluppare percorsi sperimentali capaci di integrare l’alunno con disabilità. In tutti i casi quegli inserimenti rimanevano spesso “oasi felici” all’interno di un contesto scuola che procedeva immutato.
Nasce da qui, dalla mancanza di adeguamento del “contesto scuola”, il meccanismo della delega al docente di sostegno e il suo progressivo isolamento.
Cosa dire poi sul modo in cui i disabili intellettivi entrarono nella scuola secondaria di secondo grado. La Sentenza 215/87 della Corte Costituzionale ne riconosceva loro sì il diritto all’inserimento, ma senza che, al di là di Circolari, nulla cambiasse nella normativa generale, per favorirne l’inclusione.
La stessa Legge 104/92, mentre da un lato definiva con chiarezza i diritti dei disabili, negli articoli riferiti all’integrazione scolastica, ancora una volta precisava procedure e strumenti per la sola integrazione dei disabili, senza però toccare l’organizzazione del sistema nel suo complesso: ad esempio il PEI, Progetto Educativo Individualizzato, veniva proposto in un contesto scuola che, di fatto, non progettava i suoi percorsi formativi e i suoi curricola e questo non fece che rinforzare la delega e l’isolamento del docente per il sostegno con il “suo” alunno all’interno della classe.
Inoltre, con l’abolizione dei corsi biennali di specializzazione polivalenti e il passaggio della formazione dei docenti per il sostegno dall’amministrazione scolastica alle università, il patrimonio di buone prassi di integrazione sviluppate in quei vent’anni di inserimento perdeva un importante strumento di “disseminazione”.
Per rispondere al nuovo compito, dopo la scomparsa delle classi speciali, nelle università vedremo “fiorire” le Cattedre di Pedagogia Speciale, quasi a indicare la necessità di una pedagogia parallela, “dedicata” appunto all’educazione degli alunni con disabilità.
Infine, nemmeno l’autonomia didattica, approvata nel 2000 – che pure ha dato alle scuole concreti strumenti – una volta calata in un sistema dov’era scarsamente presente la cultura della progettazione e senza che si affiancasse ad essa un serio programma di aggiornamento del corpo docente, è riuscita finora a modificare più di tanto questo stato di cose. Una riprova di come il sistema continui a considerare l’inclusione dei disabili una cosa separata è la richiesta alle scuole del PAI, il Piano Annuale per l’Inclusione, ovvero una proposta educativa parallela a quella del PTOF, il Piano Triennale per l’Offerta Formativa e del conseguente PA (Piano Annuale), che ne definisce gli obiettivi, le risorse e gli strumenti per la realizzazione di periodo.
Come si vede, il vero problema non sta nella mancata applicazione della norma, ma in un difetto metodologico intrinseco alla stessa normativa sull’inclusione: l’emanazione di norme per l’inclusione che, di fatto, si riferiscono solo sempre alla progettazione per gli alunni con disabilità, anziché a un modello di progettazione for all, “per tutti”, che coinvolga nel cambiamento l’intero sistema. Una normativa che è risultata solo illusoriamente inclusiva, mentre nei fatti ha generato un sistema “duale”, nel quale convivono il modello di scuola per tutti e quello “in perenne sperimentazione” per gli alunni con disabilità. Un sistema scolastico che non può che essere inclusivo “a macchia di leopardo” e che se garantisce l’inserimento di tutti gli alunni con disabilità, resta però per molti di loro solo fittiziamente inclusivo. Un sistema, infine, all’interno del quale è stato ed è difficile far nascere quel modello capace di includere concretamente nella scuola “per tutti e per ciascuno”, più volte richiamata dai documenti ministeriali e dalle relazioni degli accademici.