Fatto assai degno di nota, di portata quasi “storica”, nel pomeriggio del 25 novembre a Roma, in occasione della Manifestazione Nazionale Non Una di Meno, promossa nella Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, ci saranno anche le donne con disabilità della FISH (e non solo), a dare ulteriore sostanza all’impegno forte annunciato già qualche settimana dalla Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap, su un tema come quello della discriminazione multipla vissuta dalle donne con disabilità, che vede il nostro giornale particolarmente attento, ormai da molti anni.
Parimenti significativo sarà anche lo striscione portato in piazza da quelle donne con disabilità, che reciterà: Le donne con disabilità contro ogni discriminazione e violenza.
Senza poi dimenticare le importanti adesioni formali che avevamo registrato ancora da parte della FISH, ma anche di altre organizzazioni, al Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea, cominciamo a proporre, in vista dell’iniziativa del 25 novembre, alcune testimonianze da parte di donne con disabilità o senza disabilità, ma da sempre impegnate in questo àmbito.
Lasciamo dunque spazio a Simona Lancioni, una delle nostre “firme” di maggior spessore, che è responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa).
In occasione della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne del 25 novembre, l’Ikea e Telefono Donna hanno annunciato una campagna di sensibilizzazione sul tema, anticipata dallo spot denominato La casa non è fatta per difendersi.
I due enti hanno comunicato che già dal 13 e fino al 25 novembre, ventuno store Ikea di tutta Italia saranno il palcoscenico dove attori professionisti rappresenteranno scene di violenza tratte da storie reali. «Vogliamo rompere il muro del silenzio – ha dichiarato in tal senso a “la Repubblica” (cronaca di Milano) Sara Del Fabbro, Deputy ad Ikea Italia – e aiutare le donne a vivere la propria vita e a sentirsi sicure in casa».
Mi soffermo sullo spot, un filmato di 1.05 minuti. C’è una donna ripresa in uno store Ikea, ha un’aria pensierosa. È sola ed esamina diversi componenti d’arredo. Solleva un letto ribaltabile. Entra dentro un armadio. Leva una candela da un candelabro, lo prende in mano e lo maneggia, quasi a sentirne la consistenza. Estrae un cassetto da una cassettiera e lo dimena fendendo l’aria, come a voler colpire un nemico invisibile, poi lo ripone al suo posto. Si guarda intorno esaminando altri oggetti, sino a quando si rende conto di essere osservata. Un uomo la sta guardando con sguardo interrogativo, con un cenno del capo, e senza dire una parola, le fa cenno di seguirlo. Lei, docile, ubbidisce, e, camminando dietro di lui, si dirigono in altri reparti nei quali sono presenti altre persone. Il video è quasi muto. Si odono solo il cigolio del letto sollevato, l’anta scorrevole che, nell’aprirsi, raggiunge l’intelaiatura dell’armadio, lo spostamento d’aria del cassetto brandito. A circa metà video, inizia a sentirsi una specie di cigolio metallico che diventa sempre più forte, e che si interrompe quando i due escono dallo spazio espositivo in cui si trovava la donna, lasciando il posto al fruscio dei vestiti e al rumore di passi. Il cigolio si ripropone fastidioso nel momento in cui su uno sfondo nero si susseguono quattro scritte: «La casa non è fatta per difendersi», «In Italia 1 donna su 3 subisce violenza domestica», «25 novembre», «Telefono Donna e IKEA per la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne».
Ho trovato questo spot di sensibilizzazione molto intelligente, perché aiuta ad assumere la prospettiva delle donne che subiscono violenza domestica, mostrando che la casa è vissuta da costoro come un ambiente angosciante, e non come il luogo sicuro che dovrebbe essere.
Quello spot, però, non dice che il rischio di subire stupri è più che doppio per le donne con disabilità: il 10% contro il 4,7% delle donne senza limitazioni funzionali. E che i rischi aumentano in caso di stalking: il 21,6% delle donne con disabilità ha subìto comportamenti persecutori contro circa il 14% delle altre donne (fonte: ISTAT).
Lo spot non è audiodescritto, cosa che lo renderebbe accessibile alle persone cieche. Né è verosimile ritenere che, se ci fossero stati dei dialoghi, qualcuno si sarebbe preoccupato di inserire i sottotitoli (per rendere il filmato accessibile alle persone sorde). E neppure mi risulta che sia stata realizzata una versione facilitata dello spot che aiuti persone con difficoltà di comunicazione e/o cognitive ad interpretare in modo corretto un messaggio affidato in larga prevalenza alla gestualità.
E ancora, lo spot non dice che una donna tetraplegica non potrebbe compiere nessuno dei gesti di difesa posti in essere dalla protagonista del filmato, né fa capire che gli stessi concetti di “difesa” e “sicurezza”, quando si è in presenza di una persona con disabilità (non solo delle donne), andrebbero ridefiniti e risignificati.
Ho espresso alcune osservazioni critiche sullo spot realizzato da Ikea e Telefono Donna, ma le campagne/iniziative promosse nell’àmbito della Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne sono un’infinità, e per la quasi totalità di esse si potrebbero fare osservazioni analoghe.
Eppure, se il fenomeno della violenza colpisce maggiormente le donne con disabilità, le campagne/iniziative di sensibilizzazione dovrebbero essere indirizzate proprio a tutelare chi è più esposta ad esso. Non dico tutte le iniziative, ma certamente qualcuna. Tuttavia ciò non accade. Cerco di spiegare il perché con un esempio.
Immaginate un incrocio di strade, e anche una macchina rossa situata al centro dell’incrocio. Immaginate che da una delle vie convergenti sopraggiunga una macchina grigia e che questa vada ad urtare la macchina rossa. Immaginate che da un’altra via arrivi un’ulteriore macchina blu, e che anche questa vada ad urtare la macchina rossa. Possiamo ragionevolmente pensare che il danno causato dalla macchina blu sarà verosimilmente aggravato dal fatto che la macchina rossa, avendo già subito un urto, abbia minori capacità/possibilità di far fronte anche al secondo urto.
Bene, le donne con disabilità sono un po’ come la macchina rossa, e il crocevia altro non è che l’insieme delle identità sociali potenzialmente segreganti che le caratterizzano.
Le donne con disabilità sono persone disabili e in quanto tali, devono spendere molte energie per inventarsi percorsi utili a gestire la propria quotidianità in un ambiente che di solito non è pensato, progettato, costruito e organizzato tenendo conto delle loro caratteristiche e, pertanto, si rivela “barrierante”.
Le donne con disabilità, però, sono anche donne e, in quanto tali, sono esposte alla violenza di genere, una violenza che devono affrontare partendo da un’oggettiva condizione di svantaggio (“l’urto” della disabilità), che incide significativamente sia sulla capacità di reggere “l’ulteriore urto” (quello della violenza), sia su quella di inventarsi strategie di difesa.
Pertanto, l’unico modo per rispondere in modo adeguato a situazioni di questo tipo è ragionare in termini di intersezionalità, ovvero considerare simultaneamente le diverse identità sociali (nel caso specifico, essere donna e avere una disabilità) e la loro reciproca interazione. Ma questo non viene fatto quasi mai, perché chi si occupa di donne pensa a risposte/servizi adatti a una “donna astratta”: bianca, occidentale, normodotata, eterosessuale, cattolica, di classe media… e non considera le specificità delle donne con disabilità; mentre chi si occupa di disabilità non ritiene di doversi occupare anche di genere (se ne occupino le donne).
La circostanza di trovarsi al centro di un crocevia multidimensionale condanna quindi le donne con disabilità ad abitare in una sorta di “terra di nessuno”, della quale proprio nessuno si vuole occupare.
Oltre alle considerazioni sopra esposte, riguardo al tema della violenza, c’è un ulteriore elemento da tenere presente.
Se in teoria è difficile trovare qualcuno/a che si dica favorevole alla violenza di genere, nella pratica, soprattutto in Italia, davanti a reali episodi di cronaca, non è affatto scontato che tutti e tutte – e gli stessi organi d’informazione – si schierino dalla parte della vittima. Cito, ma solo a titolo esemplificativo, una riflessione pubblicata su «Valigia blu» riguardo all’atteggiamento dei media e dell’opinione pubblica davanti alle molteplici denunce di molestie seguite al cosiddetto “caso Weinstein”: «la narrazione che ne è venuta fuori tra giornali e opinione pubblica è completamente schiacciata sulle vittime: sono loro che parlano e denunciano, sono loro che avrebbero potuto comportarsi diversamente e sono sempre loro che dovrebbero regolarsi ed evitare di contribuire al rischio di messa alla gogna di uomini da considerarsi innocenti fino a prova contraria» (Claudia Torrisi, Molestie sessuali: un sistema che crolla e le accuse alle vittime, in «Valigia blu», 16 novembre 2017).
Il problema, dunque, non è costituito solo dal fatto che in tema di violenza ci ostiniamo a non voler considerare la disabilità, ma anche quegli atteggiamenti che definirei quanto meno “poco trasparenti” riguardo ai casi di violenza.
In questo scenario decisamente cupo, che ha come conseguenza la discriminazione multipla delle donne con disabilità (non solo in tema di violenza), guardo con speranza alla decisione della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) di partecipare con proprie iniziative e affiancando eventi alla Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne, e anche, soprattutto, al fatto che abbia ratificato il Secondo Manifesto sui diritti delle Donne e delle Ragazze con Disabilità nell’Unione Europea”, adottato dall’Assemblea Generale del Forum Europeo sulla Disabilità (EDF) nel 2011.
Sono così fiduciosa che già da ora invito la FISH a ritrovarci qui, su queste stesse pagine, tra un anno, alla vigilia del 25 novembre, per raccontarci le iniziative in tema di genere e disabilità che verranno intraprese o realizzate nel 2018. Ho buona memoria, ci sarò, non vedo l’ora.