Quest’anno, il 10 maggio, Rosanna Benzi compirebbe settant’anni. Mi piace immaginarla fuori dal polmone d’acciaio, ormai superato da apparecchiature meno invasive per l’assistenza respiratoria. Potrebbe viaggiare, per lo meno uscire più spesso dalla stanza dell’Ospedale San Martino di Genova, dove visse per ventinove anni.
Ventinove su quarantadue anni di vita, sdraiata, immobile dentro a un ingombrante marchingegno, «il mio scaldabagno», lo chiamava lei, tutto il corpo chiuso nel cilindro metallico e soltanto la testa fuori. Uno specchio sopra al viso le permetteva di guardarsi e di allargare di poco l’orizzonte delle pareti.
Erano vivaci, quelle pareti, per nulla ospedaliere, rallegrate da quadri, vignette, disegni, fotografie. C’era anche roba prestigiosa, appesa lì: un Guttuso originale, una mano che stringe un mazzo di fiori, acquerello del 1968 regalo dell’artista siciliano, e una vignetta di Sergio Staino, dono per le nozze d’argento con lo “scaldabagno”. Nella stessa occasione, Alessandro Natta, segretario del PCI, i fiori glieli mandò veri, e i bambini delle scuole genovesi le fecero avere dei regali. Un anniversario che avrebbe potuto essere caratterizzato dallo sconforto, diventò una festa.
Questa era Rosanna, rappresentata perfettamente dai titoli dei suoi libri, Il vizio di vivere (1984) e Girotondo in una stanza (1987).
Aveva uno spirito libero e battagliero che conquistava tutti, gente comune, emarginati, politici, intellettuali, personaggi dello spettacolo. Lei aveva quella dote rara che appartiene soltanto alle persone più intelligenti: riusciva a rapportarsi con chiunque, con semplicità e ironia. Non andavano a trovarla per compassione, forse alcuni solo con un po’ di curiosità all’inizio, un briciolo di imbarazzo, presto superati dall’accoglienza che ricevevano. Non potevano darle pacche sulle spalle o stringerle la mano come si fa con un amico, quindi si appoggiavano al polmone d’acciaio come fosse un prolungamento del suo corpo (come in effetti era, per certi aspetti). Chiacchieravano di tutto, ridevano, si confrontavano, sapendo di trovare in lei la massima sincerità, un punto di vista mai banale.
Rosanna Benzi era una ragazza del ’68, anticonformista e ribelle, non aveva paura di sovvertire le regole, toccare argomenti scomodi, darsi da fare per i più deboli. Avrebbe potuto piangersi addosso, diventare egoista e incattivita, nessuno l’avrebbe biasimata.
La vita con lei non era stata gentile. Aveva quattordici anni, viveva a Morbello, un pugno di case in provincia di Alessandria. Papà aveva un bar in paese ed era il sindaco comunista. Era una ragazzina briosa e testarda, disponibile verso il prossimo, con un talento particolare per il disegno e la scrittura. Il primo giorno di primavera del ’62 contrasse la poliomielite nella forma più grave che, oltre alla tetraplegia, determina una gravissima insufficienza respiratoria.
Bizzarro e beffardo, il destino: il ’62, infatti, era lo stesso anno della commercializzazione del vaccino Sabin contro la polio. La portarono in fretta al Pronto Soccorso del San Martino di Genova, seguì un periodo in isolamento. Era spaventata, voleva scappare, era poco più di una bambina. Invece da quel posto non se ne sarebbe mai più andata. Lo capì da sola, quasi subito, dagli sguardi, le mezze parole, le carezze di consolazione. Cominciò a guardare il mondo a faccia in su nella stanza con cucina e bagno messa a disposizione dall’Ospedale, in modo che papà Angelo e mamma Rosalia potessero starle accanto. Mamma era sempre con lei, papà aveva venduto il bar e si era reinventato bidello per avere più tempo a disposizione. E poi c’era lui, il polmone d’acciaio, un grosso aggeggio di produzione americana dal design antiquato, color crema. Un’enorme lattina con un mantice elettrico mosso da un compressore che pressurizzava e de-pressurizzava l’aria, muovendo il torace di Rosanna, coricata su una barella chiusa nel dispositivo. Dei manicotti di gomma infilati negli oblò sulle pareti del polmone consentivano le operazioni di igiene quotidiana, senza perdite d’aria. Un rumore morbido e costante scandiva i respiri, le parole di Rosanna dovevano giocoforza adeguarsi al ritmo della macchina; per parlare “rubava” tempo all’aria che entrava e usciva dai polmoni.
Ora immaginate un mondo senza internet né social, niente computer e smartphone, nessun mezzo tecnologico per l’autonomia che sfrutti la voce o il movimento degli occhi, e immaginate di vivere in questo modo che oggi appare assurdo, oltretutto immobilizzati dentro a una macchina.
Queste erano le condizioni di partenza di Rosanna. Facilmente, quindi, comprenderete che sono stati il carattere e la volontà a fare la differenza. L’impegno sociale l’aveva scritto nel DNA, iniziò a dare “picconate” ai muri della camera, ad uscire dall’ospedale sia pure non fisicamente (solo molto di rado le veniva applicata una sorta di “corazza” a pressione negativa con cui poteva respirare fuori dal polmone d’acciaio, semisdraiata su una sedia a rotelle con cui poteva quindi spostarsi). Il tamtam mediatico la trasformò in una “star” fotografatissima, un’eroina moderna.
Eppure lei era straordinariamente normale, eccezionale nella naturalezza con la quale parlava di sé: «Io non mi sento né inferiore né superiore ad altri. Io non cambierei la mia vita con quella degli altri. Il dolore non lo amo, nel dolore non mi ci crogiuolo. Il fatto di sapere che non c’ è una cura non mi mette in crisi di disperazione. Mi sono adeguata alla mia nuova realtà. Ho costruito pezzo per pezzo la mia nuova esistenza. Certo se domani potessi uscire di qua e andarmene per strada sarei felice, ma sai quanta gente di quella che va per strada vive meno di me la propria vita? Quanta gente la spreca, o la lascia passare distrattamente? Io ho imparato a non buttare via niente».
Non solo non sprecò, creò invece senza sosta: la sua stanzetta, infatti, divenne crocevia di persone e pensieri. Nel 1976 fondò la rivista «Gli Altri», uno dei primi esempi in Italia di informazione sociale fatta dalle persone con disabilità.
Dirigeva il giornale, un semplice ciclostilato che ebbe il coraggio di lanciare pionieristiche campagne di sensibilizzazione: le barriere architettoniche, l’abbattimento dell’IVA sulle sedie a rotelle e sui presìdi ortopedici (se oggi l’IVA è al 4% lo dobbiamo anche a Rosanna Benzi), le denunce sulle tremende condizioni delle persone ricoverate nelle strutture di cura psichiatriche.
Diritti per tutti, a tutto tondo. Fu la prima a parlare di identità femminile delle donne con disabilità, voglia di maternità, la prima a toccare l’argomento sessualità. Sono temi caldi, ancora oggi poco dibattuti e vissuti con disagio gali stessi diretti interessati.
Rosanna era diventata donna nel polmone d’acciaio e non si sentiva diversa dalle altre. Aveva un fidanzato, facevano l’amore, aveva anche pensato di avere un bambino. Un sogno rimasto irrealizzato, per scelta, perché, diceva, «un bambino deve avere la presenza fisica della madre, le deve stare addosso. Per me questo è impossibile. Ho pensato che sarebbe stato un gesto d’egoismo, il mio far nascere un figlio, non d’amore».
Non pensava che tutto le fosse dovuto, provocatoriamente affermava una grande verità sui disabili: «Noi abbiamo pregi e difetti come tutti. Molto spesso siamo rompicazzi. Quando si potrà dire di un handicappato che è antipatico, senza paura di essere rimproverati, allora vorrà dire che le cose, per noi, saranno diventate normali». Essere malmostosi e «rompi cazzi», sentirselo dire in faccia, l’ennesimo diritto negato!
Negli Anni Ottanta arrivò l’incontro con il giornalista Saverio Paffumi. Questi aveva un piccolo registratore Sony e con quello registrò su cassette le parole di Rosanna. Nacque così Il vizio di vivere, un best-seller da tredici ristampe, diventato anche un film per la TV, diretto da Dino Risi nell’88.
A rileggerle oggi, le pagine di quel libro emanano ancora un contagioso ottimismo, insegnano senza la pesantezza di chi sale in cattedra per impartire severe lezioni.
Sempre con la collaborazione di Paffumi, pubblicò poi Girotondo in una stanza, una raccolta di lettere, una minima parte di quelle che le giungevano da ogni angolo d’Italia, da persone diversissime tra loro che volevano comunicare con lei.
Parole speciali gliele inviò anche Primo Levi, dopo aver letto Il vizio di vivere: «Il tuo libro non solo è molto bello, ma possiede una qualità unica, che non ricordo di avere mai trovato altrove: descrive una condizione umana estrema, eppure non rattrista, anzi fortifica. Questo è un riflesso della tua forza che per mille vie impercettibili si comunica al lettore. Penso che dovrebbe essere letto da molti, in specie da quei giovani a cui il destino non ha negato nulla, e che tuttavia si rifugiano nell’inerzia e nel lamento esistenziale».
Manca, Rosanna Benzi, manca molto. Il suo messaggio di solidarietà è quanto mai attuale in questi tempi di incomprensione, rimane un faro di riferimento per chi vive una qualunque “diversità” che la società non è preparata ad affrontare. Manca il suo pensiero schietto per nuove questioni sul tappeto, non solo quelle riguardanti la disabilità. E chissà quanto riuscirebbe a fare con le odierne tecnologie e i nuovi media, difficile perfino immaginarlo se si pensa a cosa è riuscita a costruire con poco.
Nel 1991 ci ha lasciati, eppure non è rimasto silenzio. L’Associazione Gli Altri ha ereditato il testimone, continua l’impegno per cambiare la cultura del pietismo e dell’indifferenza. Rientrato l’allarme del possibile sfratto dalla sede nella parrocchia della Santissima Annunziata del Chiappeto, nella Diocesi di Genova, i volontari svolgono un capillare lavoro nelle scuole e custodiscono gli oltre duemilacinquecento volumi di Rosanna, alcuni impreziositi da dediche importanti come quelle di Sandro Pertini e del citato Primo Levi. Una biblioteca aperta a tutti, come sarebbe piaciuto a lei, che presta i suoi libri agli abitanti della zona.
Le hanno dedicato anche la Biblioteca Civica di Genova-Voltri, quella Comunale di Morbello e il piazzale antistante l’Ospedale San Martino.
Rosanna Benzi avrebbe potuto diventare solo un caso clinico, un freddo numero, invece ha voluto e saputo essere se stessa, fino in fondo, e sperava che le sue battaglie non andassero perdute: «Alle volte mi chiedono quale eredità politica e morale vorrei lasciare. Spero che il lavoro che ho iniziato vada avanti. Ecco l’eredità. E che aiuti chi ne ha bisogno a pensare: “Se lei l’ha fatto vuol dire che si può fare!”».