Altri hanno piantato ciò che noi mangiamo.
Noi piantiamo ciò che altri mangeranno
(da un antico proverbio persiano).
Da diversi anni ormai, come per le festività più importanti, il 21 febbraio si celebra la ricorrenza della Giornata Nazionale del Braille, istituita con la Legge n. 126 del 3 agosto 2007.
Il copione è collaudato e si replica in lungo e in largo in tutto il territorio nazionale: convegni, seminari, articoli, interviste, sono tra le iniziative più comuni promosse dall’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) e dalle Amministrazioni locali. Lo scopo è chiaro: vivificare e mantenere accesa la memoria di un glorioso passato; informare, ribadire, persuadere che il Braille continua a rappresentare una parte essenziale nel processo della formazione culturale in ciascuna fase della vita di una persona non vedente.
Molti (esperti, professori, dirigenti, esponenti politici), per la verità forse non tutti intimamente convinti, si prodigano a spendere fiumi di parole, tesi ed energie a sostegno di un codice di scrittura che vola verso il compimento dei suoi duecento anni di età.
Ma quali sono le vere ragioni che stanno alla base di una difesa in contumacia sostenuta da un numero così considerevole di “avvocati”? Da chi lo vogliamo proteggere? Perché riteniamo di doverlo promuovere? Chi è, se esiste, il suo nemico, il suo più diretto competitor?
Da tempo si dice che il Braille è “alla resa dei conti”, che deve vedersela con la tecnologia, intendendo per questa la sintesi vocale. Ma è proprio così? È veramente quest’ultima l’avversario da combattere e da battere?
Sappiamo, e non possiamo far finta di nulla, che viviamo nella società dell’informazione, una società in cui la quantità sacrifica la qualità, in cui il possedere va a scapito del sapere.
Orientarsi fra ciò che è utile e ciò che è spreco è spesso problematico e la tecnologia, in questo senso – per come oggi in molti la utilizziamo, compresi noi ciechi – ci conduce diritti verso questa trappola. Guardiamo allo schermo di un computer o di un palmare, di uno smartphone o di un tablet, pressoché indifferenti; ascoltiamo risuonare e scorrere veloci, parole, e-mail, documenti, comandi, pressoché distaccati, senza spesso porre la giusta attenzione agli effetti dei contenuti, ai concetti espressi.
Diceva quel tale che ciò che è davvero importante, arricchente non è la quantità di libri che leggiamo, ma il modo, l’intelligenza con cui li leggiamo. A scuola, guai se non hai un PC o un cellulare; al lavoro, se non sei informatizzato, non hai speranza di successo. Sembra impossibile pensare alla quotidianità senza tecnologia: prenotare un servizio pubblico, accedere a una cartella sanitaria, gestire un conto corrente bancario, fare la spesa online, sono solo alcune operazioni per le quali è richiesto il possesso di un PC connesso o di uno smartphone. I nostri figli (siamo rapidamente passati dagli adolescenti ai bambini) sono intestatari di un numero telefonico.
Eppure, dietro questa montagna di “tecnicaglia” che da un lato mette tutti in fila, allinea, si insinua in tutte le sfere sociali, è alla portata di tutte le tasche, azzera le distanze, favorisce la velocità d’azione e la riduzione di margini d’errore, dall’altro richiede competenze relazionali elevate, seleziona, discrimina, emargina, crea il digital divide. Qui dentro, dentro questa cornice tratteggiata di opportunità e di esclusione, di impossibilità e di accessibilità, sta, o non sta, l’integrazione sociale dei ciechi.
Se dunque è vero, come per lo più si ritiene, che il mondo del digitale rappresenta una corsia preferenziale per perseguire l’obiettivo della piena inclusione sociale dei disabili, non possiamo farci trovare impreparati di fronte alle insidie che pur si celano nei labirinti dei miliardi di bytes e di bits disseminati lungo il cammino.
In questo panorama, nel quale la comunicazione tattile sembra perdere “punti”, affannarsi a cercare un capro espiatorio, nemici e avversari, serve solo a spostare l’attenzione. Di fatto, le cause del crescente disuso del codice Braille risiedono più verosimilmente altrove. A mio avviso, piuttosto, se il Braille vuole recuperare le posizioni cedute, deve guardarsi dentro, deve misurarsi con la propria pigrizia e autostima, con la propria sofisticazione e con le proprie potenzialità, con la propria indipendenza e con i nuovi compagni di viaggio con cui avvedutamente integrarsi: l’inesauribile trascorrere del tempo e l’impatto dell’ineludibile cambiamento sono le sentinelle alle quali presentare le referenze.
Non esiste alcuna partita da giocare: il Braille deve solo credere in se stesso, accantonando presunti timori reverenziali, fermare la corsa, girare la testa e ammirare il passato.
Da più parti si sostiene, un po’ beffardamente, che la lettura in Braille sia lenta e comunque non paragonabile alla velocità della sintesi vocale. Affermazioni di questo tipo sono assolutamente vere, ma parziali, per altro in qualche modo tecnicamente non corrette, dal momento che l’utilizzo della sintesi vocale pone il fruitore nella veste di ascoltatore e non di lettore. Per di più, non vi è “braillista” al mondo che pensi di gareggiare con la velocità massima di un sintetizzatore! In occasione del suo anniversario, gli dovremmo invece essere grati proprio per il suo punto di forza: la lentezza.
Nel racconto Storia di una lumaca che scoprì l’importanza della lentezza, Luis Sepúlveda scrive: «Una volta sistemata là sopra, dietro la testa della tartaruga, la lumaca le chiese dove stava andando, ma l’altra ribatté che non era la domanda giusta e che avrebbe dovuto chiederle invece da dove veniva. Così, mentre da lassù la lumaca vedeva passare le erbe del prato a una rapidità sconosciuta, la tartaruga le raccontò che veniva dall’oblio degli esseri umani…».
A mia volta, ritengo utile gettare uno sguardo fugace all’indietro per accorgerci come questi puntini abbiano potuto “bucare” attraverso la notte dei tempi e presentarsi sotto le nostre dita più robusti che mai.
Fino a trenta-quarant’anni anni fa, i saperi arrivavano ai ciechi in prevalenza tramite il codice Braille scritto su carta. A scuola e al lavoro, come nella vita privata, tutto il materiale veniva prodotto manualmente con il punteruolo e la tavoletta o con la dattilobraille: i compiti di matematica, di latino, di greco, di lingua straniera, gli appunti, gli spartiti musicali, le brutte copie nei compiti in classe di Italiano… L’odore di quei fogli fatica a sparire dalla nostra memoria olfattiva, dai nostri ricordi. Quintali di carta riempivano le stanze dei nostri Istituti, dedicate esclusivamente ad ospitare tomi enormi, ingombranti, posti in fila in lunghissimi e altissimi scaffali, per poi costituire un arredo che caratterizzava le nostre case.
Per dare un’idea dello spazio necessario, prendiamo a mo’ di esempio la Divina Commedia: l’opera consiste di 96.550 parole distribuite in 32 volumi Braille; il singolo volume ha uno spessore approssimativo di 6-7 centimetri; posizionati uno accanto all’altro, occupano complessivamente una lunghezza di circa 2 metri!
Negli Anni Ottanta e primi Anni Novanta, il sistema Braille deve affrontare una prima grande prova di resistenza. È il tempo dei terminali 3270 (comunemente denominati “terminali stupidi”); si affacciano sul mercato dando bella mostra di sé i primi personal computer da tavolo, i sistemi operativi sono testuali e la lettura dello schermo è lineare e sequenziale: è tempo di tecnologia assistiva!
Ascoltiamo, un poco indispettiti, la voce stridente dei primi sintetizzatori vocali e, curiosi, scorriamo le dita sui primi display Braille a sollevamento meccanico; è il periodo dei display da 80 caratteri a 8 punti, di lunghezza pari a 1 metro, con peso superiore ai 10 chili; si progettano addirittura scrivanie specifiche dotate di speciali alloggiamenti: una vera e indescrivibile emozione “leggere” lo schermo con le mani! Si aprono inesplorati scenari nel mercato del lavoro e si sperimentano nuove professioni, come quella del programmatore. Grazie alla tecnologia, dunque, il Braille si evolve, salvando i ciechi dall’emarginazione sociale.
Con il progressivo ridimensionamento dei personal computer (i primi pesavano 5 chili e montavano hard disk da 20-40 mega, ad esempio Compaq), si diffondono sempre più display Braille da 20, 40 caratteri con tecnologia più sofisticata di tipo piezoelettrico.
Parallelamente al miglioramento della qualità del Braille, anche la sintesi vocale vive una costante evoluzione, elevando ampiamente le proprie performance. Quel che più conta, in questo tempo, è l’inarrestabile sviluppo dello screen reader, sofisticatissimo programma in grado di stabilire, tra le innumerevoli funzioni, quale parte dello schermo debba essere riportata o evidenziata sulla barra Braille o letta dalla sintesi vocale.
La crescente complessità dei software di base e degli applicativi di uso più comune portano ai primi corsi di formazione, destinati a diffondersi velocemente su tutto il territorio. Gli elevati costi dei dispositivi Braille, la breve durata dei corsi di alfabetizzazione, la fragile conoscenza del codice Braille da parte degli istruttori, l’esigenza prioritaria di insegnare l’ABC dell’informatica, l’eterogeneità dei requisiti degli allievi, sono tra le principali cause che fanno generalmente preferire l’insegnamento mediante l’ascolto della sintesi in luogo della lettura tramite il display Braille.
Alla metà degli Anni Novanta, poi, il signor Braille supera l’ennesima sfida che vede il passaggio dalle piattaforme testuali ai sistemi grafici: su tutti, dal sistema operativo DOS all’ambiente di lavoro WINDOWS. Sono momenti difficili e delicati, nei quali si assiste ad un generale disorientamento fra i produttori, i distributori e gli utenti. Vengono ripensate le modalità, le metodologie e le strategie di fare formazione. Si passa da una lettura lineare di righe e di caratteri statici (corrispondenza 1 a 1) a pulsanti, icone, finestre estremamente dinamici e di diversa ampiezza. Ci tuffiamo nell’universo della rete internet! Si incomincia a parlare del concetto di Accessibilità ai sistemi, agli applicativi, ai libri di testo digitali. Qui non è il Braille a “spaventarsi”, ma chi il Braille ha il dovere di insegnarlo.
L’Accessibilità è un termine che sottintende un concetto ancora oggi di stretta attualità. Sfocerà con la “Legge Stanca” n. 4 del 9 gennaio 2004, ovvero Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici, norma che si basa sul principio costituzionale di uguaglianza, affermando che «la Repubblica riconosce e tutela il diritto di ogni persona ad accedere a tutte le fonti di informazione e ai relativi servizi, ivi compresi quelli che si articolano attraverso gli strumenti informatici e telematici».
La progressiva miniaturizzazione dei prodotti tecnologici e della componentistica incoraggia le aziende del settore a disegnare display e tastiere Braille dalle dimensioni sempre più ridotte. Due ulteriori campi di applicazione prevalgono e si profilano due distinte direttrici.
La prima consente, a chi sa scrivere in modalità Braille, l’utilizzo di quella vasta gamma di notebook progettati appositamente per i ciechi. Si tratta di veri e propri computer, muniti di display Braille e tastiera Braille, con memorie praticamente illimitate, su cui sono installati software proprietari e quelli di ultima generazione con sistemi operativi open-source [di libero utilizzo, N.d.R.]. La consultazione di testi, la stesura di appunti o relazioni, la gestione di rubriche e agende, rendono queste “macchinette” amici fedeli e preziosi nella conduzione delle attività di tutti i giorni: a scuola, al lavoro, nella vita privata. Sono vere e proprie biblioteche portatili! La dotazione di funzioni quali la gestione della posta elettronica, la connessione ad internet e al satellitare le rende particolarmente appetibili e versatili.
La seconda prospettiva ci riconsegna una piena e “totale” accessibilità al mondo dei tablet e degli smartphone. Viviamo un ulteriore passaggio che determina una rivoluzione radicale, sia dal punto di vista sociale (cambiano i canali di comunicazione e cambia il linguaggio di comunicazione; le relazioni aumentano in numero e diminuiscono in solidità; si azzerano le distanze), sia nelle modalità di utilizzo (sono dotati di tecnologia touch, non dispongono di tastiera fisica). Sono dispositivi potentissimi, destinati nel tempo a sostituire i tradizionali computer. Montano sofisticatissimi screen reader di alta qualità, che permettono una buona interazione tramite il canale vocale e il sistema Braille. Tuttavia, mancando di tasti in rilievo integrati, il loro pieno utilizzo da parte di noi ciechi richiede elevate abilità e specifiche competenze. Per queste ragioni, adoperarle in campo scolastico e professionale è pregiudicato e circoscritto a esigue aree di applicazione.
Connettere un display Braille, magari munito di tastiera Braille, ad uno smartphone è oggi, comunque, un’opportunità da non lasciarsi sfuggire, dal momento che qualsiasi informazione da internet, la lettura di libri e giornali, la consultazione di dizionari, la fruizione di giochi, tutto è a portata di dita, tutto è immediatamente Braille che scivola sotto le mani: abbiamo l’opportunità di leggere, di conoscere, di avere il mondo in Braille, in una mano.
Quell’opera che una volta “rubava” spazio nelle nostre case, oggi conserva le sue 96.550 parole in 600 kb di memoria che corrispondono a 600.000 caratteri. Per rendere ancora una volta l’idea più precisa del cambio di prospettiva, la dimensione media di una memory card è di 64 giga che equivale a 64 miliardi di caratteri. A dire che questo contenitore è capace di ospitare circa 106.000 (centoseimila) testi della Divina Commedia. Se dovessimo riprodurli in tradizionali volumi Braille, ricopriremmo oltre 200 chilometri, ovvero più o meno la distanza esistente tra Milano e Bologna.
Il tema della produzione del Braille – volendo riferirsi in questo senso alla stampa su materiale cartaceo di testi, appunti, disegni – offre spunti di interessante dibattito tra i produttori di stampanti Braille e gli esperti di tiflotecnica, tiflopedagogia e tifloinformatica. È evidente che, con l’avvento del digitale, l’utilizzo diffuso di questo supporto non è più completamente giustificabile. Ragioni come quelle dell’ingombro, della conservazione del materiale, della tempistica nella realizzazione, dello scorrimento rapido del testo, fanno optare per la creazione di documenti informatici decisamente più “manipolabili”. Ciò non di meno, la varietà dei costi e la disponibilità di un’ampia gamma di modelli di stampanti aprono ad utili campi di applicazione. Poter ad esempio disporre con relativa facilità di una stampante Braille, a casa o a scuola, rende possibile, in linea generale da chiunque, il trasferimento rapido su carta di parti di testo, di esercitazioni, di semplici matrici e di grafici accessibili. Si aggiunge che, oltre che per la velocità di stampa e per la possibilità di stampare ad interpunto, i modelli più evoluti sono in grado di riprodurre disegni in rilievo, in nero, a colori. È possibile ottenere scritte in Braille, in nero o in entrambe le modalità sovrapposte.
La facilità di avere in un “batter d’occhio” qualsiasi testo digitale stampato – si pensi che anche la trascrizione di un libro mediante scanner è un’operazione alla portata di tutti – pone il problema della qualità della segnografia e dell’osservanza delle regole di impaginazione Braille.
La duplice prospettiva di leggere in Braille su carta o tramite display propone un altro motivo di riflessione: l’insegnamento del Braille può avvenire indifferentemente attraverso entrambi i supporti? Unanimemente gli esperti sono del parere che – per ragioni che qui non tratteremo, relative allo sviluppo della percezione tattile e dell’acquisizione del concetto di spazialità, soprattutto se il discente è un bambino – muovere i primi “passi” nella fase di prima alfabetizzazione del codice, scorrendo le dita su una pagina tradizionale, sia un processo indiscutibilmente insostituibile.
Al termine di questa seppur veloce e incompleta panoramica, possiamo affermare che la tecnologia, almeno quella buona e amichevole, non sembra avere, fino ai nostri giorni, penalizzato oltremodo il Braille e le nostre velleità di integrazione sociale. Indubbiamente, non è concesso abbassare la guardia allentando la pressione sui produttori di tecnologia assistiva e rinunciando alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sul tema dell’accessibilità digitale.
Gli àmbiti, tuttavia, verso i quali sarebbe più proficuo indirizzare le nostre intelligenze più vivaci e i nostri sforzi, ritengo che riguardino, almeno in questa fase, i contesti di applicazione e le modalità di utilizzo dei software applicativi. In questo senso, dobbiamo provare a valutare con obiettività i vantaggi derivanti da un’ottima padronanza della letto-scrittura del codice e da un’altrettanto ottima padronanza delle funzioni e delle potenzialità dei più moderni dispositivi elettronici Braille, nonché gli svantaggi derivanti dal non esserne in possesso.
Se pensiamo, ad esempio, al tema dell’inclusione scolastica, sappiamo che il modo di fare scuola e la comunicazione didattica, diversamente dal passato, sono basati sulla velocità, sulla varietà delle fonti, sulla comunicazione non verbale, sulla trasmissione di immagini/video. Ne consegue che la parola, scritta o parlata, perde di valore, diminuisce di importanza e di incisività, non costituendosi quale solo veicolo privilegiato nella trasmissione degli insegnamenti. Ciò inevitabilmente riduce per tutti in maniera drastica i tempi dedicati alle esercitazioni della lettura (ad alta voce) e della scrittura. A maggior ragione, il sistema Braille, implicando e richiedendo fatiche ed energie ulteriori, non incoraggia certo gli studenti non vedenti e chi ha il compito di insegnarlo ad investimenti giudicati superficialmente inopportuni. In più, nei casi in cui – e per buona sorte ve ne sono molti – si conviene di riservare spazio temporale all’insegnamento del codice Braille, emerge largamente una gravissima lacuna metodologica, che rischia di vanificare gli sforzi e di conseguenza compromettere la qualità dei risultati.
È fuor di discussione che è di enorme importanza insegnare il Braille in qualsiasi modo, purché si trasferiscano all’allievo le abilità anche minime nella decodifica e nella composizione dei caratteri: tramite tavoletta e punteruolo o tastiera Braille, su carta o su display Braille. Lodi a coloro che si adoperano su base volontaristica a tenere corsi di alfabetizzazione Braille in prevalenza a favore degli adulti, promossi dalle strutture associative e dai circoli ricreativi dell’UICI. Se questo è apprezzabile nelle situazioni in cui si intende perseguire l’obiettivo del trasferimento della conoscenza del sistema in breve tempo, di contro, l’insegnamento della letto-scrittura in un contesto scolastico, quale strumento essenziale nel processo di crescita culturale del bambino/ragazzo non vedente, presuppone solide metodologie e strategie didattiche che vanno ben al di là del mero e pedissequo insegnamento mnemonico tabellare e della rappresentazione dei punti per ciascun carattere.
Senza avere la pretesa di essere esaustivi in questa sede nella trattazione dell’argomento, penso che, in troppe circostanze, l’incertezza nel possesso di un metodo tiflodidattico consolidato sia la causa principale della sostanziale inefficacia di chi insegna e di un generale “impigrimento” di chi apprende. Nei corsi di insegnamento del Braille rivolti agli insegnanti, ma ancor prima nei percorsi formativi nell’area tiflopedagogica, l’insegnamento di questo codice avviene, spesso, seguendo criteri privi di fondamento didattico e scientifico. È compito di chi disegna percorsi formativi di alto livello scongiurare questo rischio. Dobbiamo affidare a chi si occupa di scienze tiflologiche l’abilità di trasferire ad altri formatori la consapevolezza e la competenza didattica a sostegno dell’insegnamento del sistema Braille. In caso contrario, i nostri ragazzi, ultimo anello della catena, mostreranno forti fragilità, incertezze e reticenze nell’utilizzo del sistema, trovandolo eccessivamente faticoso e praticamente inutile. Pena, nel tempo, il suo inevitabile progressivo abbandono (analfabetismo di ritorno)!
Il mondo delle aziende e l’inserimento nel mercato del lavoro sono un ulteriore contesto meritevole di attenta analisi. I nuovi scenari in questo campo presuppongono prerequisiti di ingresso selettivi, in assenza dei quali si è estromessi. I ciechi, se posseggono abilità accertate e consolidate nell’autonomia e nell’uso della tecnologia, se dimostrano elevate competenze linguistiche, hanno sicuramente frecce al loro arco per far bene. L’esperienza dell’Istituto dei Ciechi di Milano, che da quasi quindici anni investe risorse nell’area dei servizi al lavoro, fornisce molti elementi di valutazione.
In sintesi, gli operatori che hanno il compito di condurre analisi dei contesti aziendali, di verificare l’accessibilità delle procedure in dotazione, di accertare i prerequisiti e le attitudini di chi è in cerca di occupazione e di progettare percorsi di formazione mirata, osservano generalmente notevoli possibilità di successo allorché si è in presenza di una buona conoscenza del Braille da parte dei candidati. Incontrovertibilmente, il possesso di questo strumento favorisce l’autonomia nella manipolazione di documenti e nella gestione di complesse banche dati. Di inestimabile valore ed estremamente apprezzata è la partecipazione in forma del tutto autonoma del non vedente ai processi produttivi. Scrivere e leggere il Braille consente l’uso versatile e discreto di qualsiasi dispositivo di facile trasporto: smartphone con display Braille o notetaker. Tutto ciò a beneficio dell’inclusione e della proattività.
Personalmente, non so che cosa ne sarà dell’alfabetizzazione dei ciechi negli anni futuri. Se, parola di Albert Einstein, «tutto ciò che ha valore nella società umana, dipende dalle opportunità di progredire che vengono accordate a ciascun individuo», si può ritenere, senza timore di essere smentiti, che il possesso del codice Braille ci metta sulla retta via. Comunque sia, credo nell’immortalità del punto Braille, che consente ai ciechi di toccare il mistero delle bellezze sublimi e universali; di godere delle emozioni più genuine che costituiscono l’essenza del dono della vita. Leggere in Braille versi poetici esalta la complicità tra il signor Braille e il Poeta con la P maiuscola, che si fa indissolubile dinnanzi a tre versi che desidero condividere con il Lettore: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e’l modo ancor m’offende. / Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte: / Caina attende chi a vita ci spense».
In ultimo, non avrei mai immaginato da studente che l’apprendimento del Braille sarebbe stato motivo d’immensa gioia interiore difficilmente descrivibile e che avrebbe ripagato tutte le fatiche della gioventù. Il Braille, solo il Braille, può e sa far sorgere nel nostro animo una struggente emozione che, forse, costituisce la vera ragione del nostro essere al mondo. Ritrovarsi nel ruolo di padre a leggere con le mani a voce sommessa la favola della buonanotte alla propria bimba è la fortuna più grande che abbia ricevuto dalla vita.
Penso che “l’atto di leggere” per tuo figlio, per tua moglie o marito, semplicemente per te stesso, sia un gesto che ti fa sognare un futuro più facile, che ti illumina il viso di un sorriso coinvolgente, che ti ripaga di una malinconia che, forse, si è stratificata ed alberga nei labirinti più intimi e profondi dei nostri sentimenti. Anche per questa ragione, sono infinitamente grato al Braille e mi inchino alla base dei suoi puntini.
A lui e a chi lo insegna con professionalità, auguro tanta salute e lunga vita.
Direttore scientifico dell’Istituto dei Ciechi di Milano.
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