I centri diurni, le comunità alloggio, le residenze hanno svolto e svolgono tuttora una funzione importante e la loro istituzione ha rappresentato una tappa cruciale nell’evoluzione delle politiche rivolte alla disabilità, tanto nella nostra Regione [Piemonte, N.d.R.] quanto nel resto del Paese. Ciò che il nostro Comitato [Comitato Legge 162 Piemonte, N.d.R.] afferma – insieme ai nascenti Comitati che si stanno formando in molte Regioni – non è di chiuderli tout court, dall’oggi al domani, come molti immaginano. Quello che chiediamo è di andare avanti nel cammino di civiltà iniziato moltissimi anni fa, nei tempi in cui la persona con disabilità, in particolar modo con disabilità intellettiva, non aveva alternativa fra la reclusione in un istituto di stampo manicomiale o nella propria casa, nascosta da una famiglia sulla quale gravava la “colpa” di avere avuto un figlio “menomato”, “subnormale”, e più tardi “handicappato”. Cammino di civiltà che è passato anche attraverso l’istituzione, come detto, degli attuali servizi territoriali di tipo residenziale, semi-residenziale e così via.
E tuttavia tutto ciò non è più sufficiente. E non perché lo pensa un gruppo di famiglie e di persone con disabilità di un Comitato come il nostro, una sorta di “avanguardia sognatrice che vuole la luna”, ma perché ce lo chiede innanzitutto la comunità internazionale, attraverso la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, diventata Legge dello Stato nel nostro Paese nel 2009 [Legge 18/09, N.d.R.]. Legge che ha prodotto l’Osservatorio Nazionale sulla Disabilità il quale ha emanato due Programmi di Azione biennale sulla disabilità, l’ultimo approvato dal Governo nell’ottobre 2017 (quindi “ieri”).
È sufficiente leggere quest’ultimo documento per capire che lo “sguardo” sul mondo della disabilità è e deve essere cambiato, a tutti i livelli, istituzionali e non. La persona con disabilità è titolare innanzitutto di diritti e i servizi sociali devono rispondere in primo luogo al soddisfacimento di questi diritti. Le persone con disabilità (senza eccezioni di sorta) hanno il diritto di scegliere – anche, se necessario, insieme alle loro famiglie – di avere un lavoro, di vivere su base di uguaglianza con gli altri (vita indipendente), di avere relazioni sociali ricche e varie; in altre parole di vivere una vita piena e inclusa nella società.
L’attuale risposta dei servizi non è adeguata, poiché non risponde al “mandato”, ribadito più volte nel Programma Biennale, di predisporre e mettere in atto l’unico strumento che può garantire tutto ciò: un progetto di vita che accompagni la persona con disabilità in tutto il suo percorso esistenziale, che si moduli per rispondere alle sue necessità e sia rispettoso dei suoi desideri.
Un progetto personalizzato, come diciamo noi del Comitato, in ossequio alla Legge 162/98, che proprio così si esprime, cucito su misura sulla persona con disabilità, che insieme alla famiglia viene messa al centro del sistema socio-assistenziale.
Partendo da questi presupposti si capisce, lo ribadiamo, come l’attuale offerta di servizi sia quanto meno deficitaria. L’inserimento in una comunità alloggio, in una RSA [Residenza Sanitaria Assistenziale, N.d.R.], in un gruppo appartamento non è in linea con le indicazioni espresse dal Programma Biennale e questo va detto chiaramente.
Non risponde, ad esempio, al desiderio di vivere in modo indipendente – non solo all’esterno, ma anche all’interno del proprio nucleo familiare – consentendo di conseguenza l’esercizio del diritto all’autodeterminazione che non è solo prerogativa delle persone cosiddette “a sviluppo tipico”, ma riguarda tutte le persone in quanto tali.
Non per niente il Programma parla esplicitamente di deistituzionalizzazione e di segregazione, dando la seguente definizione di istituzionalizzazione e mettendola direttamente in relazione con il concetto di segregazione: «L’istituzionalizzazione, ossia l’imposizione – esplicita o implicita – a trascorre la propria quotidianità (anche in parte) in luoghi nei quali non è consentito l’esercizio della scelta di dove, come o con chi vivere, appare una delle forme di segregazione da contrastare con maggiore urgenza e impegno, pensando sia alle persone che oggi vivono in istituzioni totali, sia a quelle che vi sono a rischio».
Dunque, allora è vero, vogliamo chiudere “le strutture”? Più precisamente, vorremmo che le strutture si adeguassero a questo ineluttabile e ineludibile cammino verso «ulteriori livelli di civiltà», così come ci viene chiesto dall’ONU e dal Programma di Azione biennale, ma soprattutto come viene chiesto da parte di quelle famiglie le quali hanno fatto proprio il concetto che per i loro cari sono esigibili gli stessi diritti che per “gli altri” sono considerati così normali da non dover nemmeno essere menzionati. Fermo restando che chi vorrà scegliere un qualunque tipo di struttura sarà libero di farlo.
Si deve avere il coraggio e, ci si perdoni la supponenza, l’intelligenza, di voler cambiare, di mettersi in gioco, come in effetti, ancora una volta, dice il Programma di Azione: «La promozione della vita indipendente e il sostegno all’autodeterminazione non sono più da considerare “settori” dell’intervento di welfare quanto piuttosto criteri ispiratori complessivi del sistema. Deve essere realizzato uno sforzo straordinario di innovazione e di formazione degli operatori».
Sostenere una persona con disabilità in un progetto di vita, accompagnarla verso l’adultità, seguirne l’evoluzione, lavorare sul contesto sociale affinché questo ne favorisca e ne supporti l’inclusione, è un investimento in intelligenza creativa e in umanità che qualunque operatore, educatore o assistente dovrebbe abbracciare incondizionatamente.
È questo che chiediamo, non la luna. Chiediamo meno rette e più progetti e percorsi di vita. Per tutti e per tutti quelli che lo desiderano.
Tutto ciò non potrà avvenire dall’oggi al domani, ne siamo consapevoli; sarà probabilmente un processo graduale, di anni, non privo di ostacoli. Ciò che chiediamo e che abbiamo chiesto durante il convegno del novembre scorso svoltosi presso l’Università di Torino [“Vita indipendente per le persone con disabilità: perché/come pensarla e realizzarla. Comitato 162 e Cooperative Sociali a confronto”, Torino, 13 novembre 2017. Se ne legga anche nel nostro giornale, N.d.R.], al quale hanno partecipato Confcooperative e Legacoop, oltre a rappresentanti delle Istituzioni a vario livello ed esperti del settore, è di provare a percorrere questo cammino, per quanto possibile, insieme, facendocene promotori presso le Istituzioni e la classe politica che hanno il compito di tradurre in atti concreti le nuove istanze che provengono dalla comunità internazionale, senza sottrarsi al confronto e senza preconcetti.
Ci sarebbero molte altre cose da dire, esempi, considerazioni, testimonianze di vita. Per questo siamo sempre disposti a incontrare chi vuole ascoltarci e confrontarsi con noi: famiglie, cooperative sociali, enti gestori e mondo politico, nessuno escluso.
Ringraziamo per la collaborazione il Centro DiVi (Centro Studi Interdipartimentale per i Diritti e la Vita Indipendente) dell’Università di Torino.